Jezebel
  1. Characters

Jezebel

Volpe di Falcadia, Cavaliere delle Farfalle, Guerriera Felagi, Thane della Contea di Vinegia, Vigendur, Comandante del Dominio, Principessa di Verdemuro

Ha scoperto da poco il suo vero nome: Vanya Alastair Devika.

Appearance

Capelli:
Rossi, Ricci.

Occhi:
Verdi.

Pelle:
Chiara ma solitamente abbronzata.

Cicatrici (Significativi):
Orizzontale sul naso, diagonale da mento (dx) a fronte (sx), labbro rotto (dx), occhio pupilla rotta (dx), braccio sinistro assente (poco sotto la spalla).

Tatuaggi (Significativi):
Tatuaggio da schiava viso e schiena, volpe e falco costato (dx), araldica mercenari costato (sx), simbolo Belsaporro coscia (sx), simbolo Ierofante nuca.

Altezza:
162 cm

Peso:
75 kg.

Personality

Obbiettivi:
Prossimi: Ora che ho recuperato l'effige, deve trovare e parlare con Yegon, il drago Opliato.
Ultimi: Ritrovare Khemed e vivere in pace, e in libertà.

Motivazioni:
La fine è sempre più vicina, non è il momento di mollare, ma è il tempo di stringere i denti e proseguire.
Anche se mi sento persa.

Conflitto:
Dopo aver perso il braccio mi sento a metà, inutile, anche imbracciare la spada è difficile. Se non posso usare il mio corpo, allora a cosa servo?

Carattere:
Sociale e solare, dura e dedita.
Le piace avere il controllo delle situazioni. Ultimamente si arrabbia più facilmente, ed ha picchi di tristezza molto forti.

Ideale:
Forza e fedeltà, se perdo la ragione, la speranza, è tutto finito. Non posso, non devo.

Credenze (Religione):
Gli Dei ci sono, esistono, ma i fatti li facciamo noi, e solo noi possiamo cambiare le cose.

Difetti:
Spesso è una testa calda. Ha un ego grande e non ama essere messa in discussione. Menzionare le sue differenze o le sue possibilità, non è una buona idea.

Simpatie:
Solitamente le piacciono tutte le persone a primo impatto.

Antipatie:
Poi però dipende da quanto sono fastidiose. Date le nuove scoperte su suo padre, inizia a non fidarsi degli Elfi. Ed ha imparato da tempo a tenere le distanze dagli uomini che hanno superato una certa età.

Famiglia:
Ora che ha conosciuto il padre, continua a provare questo senso di rifiuto, ciò nonostante si sente in dovere di aiutarlo nella sua causa. Ha scoperto di avere dei fratelli, ed una nuova sensazione di affetto e di protezione si è fatta strada in lei.

Amicizia:
I suoi amici più cari sono i suoi compagni, passati e non. Ma il suo amico e confidente più caro è Tarqua, avvicinato solo da Celric e da Klaus.

Amore:
Ha paura di chiamare amore quello che prova per Edulf, anche se ormai le è chiaro. Però questo non cambia quello che prova e provava per Khemed.

Alleati:
Le volpi, Falcadia e gli alleati di questa.

Nemici:
Zodh in piccola parte, i Principi per lo più, ha giurato di distruggere tutti gli schiavisti sul suo cammino.

Pietra e Ferro. -Capitolo 1.-

Pensatori di Guerra

Il primo ricordo che ho?
Il primo ricordo che ho è l’odore dell’erba e il sapore della pioggia.
Era forse una notte d’estate? No, sono sicura fosse una mattina di primavera.
Ho ricordi spezzati: I vestiti ed i velluti verde chiaro; Ricordo i capelli neri di mia madre; Ricordo le pareti del tempio di pietra bianca, che riflettevano la luce del sole la mattina.
Nel tempio c’era una vetrata, subito di fronte all’entrata, ed i vetri erano colorati. Con le loro sfumature mostravano due figure intrecciate, come fumo di una candela; Una di esse aveva la forma di un cavallo dal grande corno e tante zampe quanto le dita di una mano, l’altra invece era una giovane con un occhio chiuso e i capelli neri, come una notte senza stelle, come mia madre.
E la luce chiara entrava attraverso la vetrata, il calore del sole e del pavimento posso ancora sentirlo sotto ai palmi delle mani.
Credo siano solo queste le cose che riesco a ricordare di quel tempio, che oramai non esisterà più.
Non ricordo il viso di mia madre, né quello delle altre sacerdotesse, neppure i bambini con cui giocavo: I loro occhi, le loro voci, si sono perse nel fuoco.
Il tempio andava a fuoco, e con lui il bosco che lo circondava.
Ed io lo abbandonavo in catene, con i pochi sopravvissuti alla strage, strattonata con forza.
-
E’ l’alba, quando apro gli occhi.
Il chiarore del sole nascente si tinge di porpora, mentre placidamente incontra il metallo delle catene e delle gabbie, facendole brillare. Non è ancora abbastanza alto per accendere il giorno, infatti avverto ancora i sospiri freddi della notte sotto alla camicia di tessuto, le manette sono ancora gelate mentre grazie ai movimenti sconnessi dei bue battono sul mio collo e su i polsi.
Mi fanno male le gambe, ed in questo poco spazio che sono riuscita a crearmi non riesco a stenderle, così seduta in quest’angolo ascolto ed osservo.
Qualcuno più fortunato è riuscito a guadagnarsi uno spazio per star disteso, sgomitandosi anche l’aria da respirare, mentre altri, come me, stanno raggomitolati ai lati della gabbia, appoggiati l’uno sull’altro. Sento la catena attorno alla caviglia ossuta del vecchio rannicchiato accanto a me, sbattere contro le assi di legno, mentre davanti a lui c’è un bambino con gli occhi scuri, aperti fissi sul nulla, e non sembra si chiuderanno tanto presto.
I bue, li sento camminare pesantemente sulla sabbia, i manti troppo scuri per avere un colore, impregnati di sudore, sbuffi di fiato caldo escono ogni tanto dalle loro nari colorando di bianco l’aria. Il loro odore mi colma il naso.
Sono passati circa due giorni da quando abbiamo incontrato il fiume e circa quattro settimane da quando siamo entrati nel deserto, non abbiamo ancora incontrato una città e le scorte di cibo devono essere diminuite, siccome a stento ci danno da mangiare; Fortunatamente abbiamo acqua in abbondanza.
L’aria fredda brucia sulla mia schiena marchiata e sul viso, fino al mento. -Il tatuaggio- lo chiamano: Raggiunto un certo quantitativo di tempo lo fanno a tutti gli schiavi, alle femmine rosso scuro, ai maschi blu o azzurro, a seconda delle abilità di quest’ultimo. E' il segno di uno schiavo invenduto da troppo tempo, ed io sono qui da troppi anni.
Mi hanno messo quello che penso sia un unguento sulla schiena, per evitare che si infetti, credo, ma brucia come l’inferno e l’aria fresca della sera aiuta poco o nulla.
Da come ho sentito, dovremmo arrivare al mercato a mezzogiorno; Nel deserto gli schiavi sono il sostentamento, non si trova facilmente forza lavoro che non necessita pagamento. In più quelli che vengono dall’estero costano meno, anche se spesso non resistono a lungo sotto al sole cocente. Ma per chi può permetterseli non è un problema sostituirli.
Appoggio la fronte sulle ginocchia e cerco di respirare senza far rumore, nella speranza di riuscire a sentire il canto degli uccelli in lontananza. Eppure sento solo il pianto sommesso ed i respiri singhiozzati provenienti dal carro dietro.
Sono gli schiavi catturati ieri, carne fresca che scappava dal deserto, con la pelle pallida bruciata dal sole, ancora rossa e graffiata dallo sfregare con la sabbia. Carne che non sa sopravvivere qui.
Il sole fa capolino dalle dune. E smette presto di fare fresco, con i suoi raggi incendia un cielo senza nuvole. L’aria è secca, irrespirabile quasi.
Aspetto.

Pietra e Ferro. -Capitolo 2.-

Rakhesh

Arriviamo senza fallo a mezzogiorno.
Il mercato in cui si ferma il carro ha lo stesso colore del deserto, ocra e arancione, ma è ravvivata qui e là da colori accesi. Riesco a distinguere sommessamente l’odore di alcune spezie più comuni, altre invece non le conosco. Sento l’odore del sudore dei cammelli e dei cavalli del deserto che vengono venduti, l’odore dell’acciaio e di stoffe pregiate che vengono lavate in grandi mastelli di legno. Profumi ed odori forti, ma per la maggior parte si tratta di sudore umano e animale.
Fermano i carri vicino ad un venditore di cammelli, aprono le grate, tirano le catene e ci fanno scendere.
I primi passi sono sempre difficili, ricordarsi come camminare è faticoso, in più d’uno ballonzoliamo a destra ed a sinistra cercando l’equilibrio.
Quando finalmente riusciamo a stare eretti, da una sottospecie di calderone con un cucchiaio di legno poco profondo, ci avvicinano qualcosa alla bocca il pasto.
In fila, in piedi, aspetto che il cucchiaio si avvicini anche alla mia di bocca, e quando lo fa scopro con poco stupore che si tratta di una brodaglia fangosa senza sapore.
Quando a tutti è stato dato da mangiare, versano la brodaglia nei secchi per i cammelli ed i buoi.
Non facciamo spesso queste fermate, ci fermiamo poco in realtà, ma so perfettamente che mentre siamo qui, qualcuno di noi dovrà pulire i carri dall’urina, e svuotare i secchi delle feci. E so benissimo che muoversi in quei momenti è solamente doloroso.
Vengono presto indicate due persone per questo compito, un giovane ragazzo in fondo alla fila, talmente magro che ci si chiede come faccia a reggersi in piedi, e l’altra sono io; Probabilmente immaginano di non venderci oggi.
Mi sposto verso il primo carro e comincio. Raccogliendo e svuotando il piccolo secchio lercio, asciugo il pavimento con uno straccio. E mentre le mie ginocchia strisciano sul legno umido, e sotto le mie unghie si crea uno strato nerastro, il venditore batte forte e senza sosta una catena d’acciaio contro il calderone, attirando l’attenzione di qualche viandante.
Urla quanto sono buoni e prodighi i suoi schiavi, di come non se ne trovano per miglia di così ammaestrati.
Qualcuno si ferma, e qualche ragazzo in grado di lavorare nei campi viene venduto, qualche bambina anche. Nel giro di poche ore restiamo in poco più di dieci, si tratta di una giornata fruttuosa e mi viene da pensare, speranzosa, che con questi soldi guadagnati, magari il cibo sarà migliore.
Ed il sole continua a bruciare senza pietà, sento l’acciaio dell’anello attorno al collo farsi sempre più rovente mentre mi sposto su e giù lungo il carro.
E poi arriva un uomo. E' basso e grasso, con una barba appuntita sul mento, indossa vestiti pregiati, delle sete sgargianti, un cappello triangolare viola e giallo sulla testa quasi del tutto glabra. Ha occhi piccoli e chiari, infossati in guance scure e gonfie, qualche pelo gli spunta dalle orecchie grosse e flaccide adornate da orecchini dorati che pendono dai lobi allargati e cadenti. Si sventola il viso con un ventaglio di legno e cammina baldanzoso a gambe larghe.
Lo accompagnano due donne nude sotto leggere stoffe trasparenti e colorate dai colori più svariati, tenute insieme da anelli oro grossi quanto quelli appesi ai nasi delle vacche, ed un uomo che porta gli stessi colori, ma alla vita ha una grossa cintura di cuoio grezzo alla cui è appesa una sciabola ricurva ed affilata. Ha il manico adornato da pietre grosse dai bagliori strani.
Dice al venditore che ha bisogno di giovani donne appariscenti, che non lo facciano sfigurare davanti ad i compratori, con le mani piccole ed i seni grandi, docili ed ubbidienti. Il venditore annuisce e sorride obbediente, tirando in avanti tre ragazze, una di queste è fresca di poche settimane.
Il mercante inizia ad ispezionare le ragazze, trovandone presto dei difetti: Una ha il naso troppo grande, l’altra le braccia lunghe ed i fianchi stretti, la bruna che era distesa davanti a me nel carro ha i seni troppo piccoli ed i piedi troppo grandi.
Così dopo essersi guardato attorno, ed aver scrutato bene gli altri schiavi, “Mostrami la rossa” dice.
Sento tirare la catena al collo.
Esco dal carro faticosamente e cammino fino a ritrovarmi il mercante a pochi pollici.
Mi afferra il mento con due dita girandomi di lato, “Ah!” Afferma soddisfatto “Una bellezza estera!” Dice, il suo alito sa di aglio e cipolla, umido e caldo “Mio caro venditore, volevi nascondermela lì dentro”
“Ma no mio caro,” Dice il venditore mortificato “E’ bella di certo, ma manca di intelletto, non dice una parola, ed in più,” Con un bastone mi sposta i capelli lontani dalle orecchie “E’ un ibrido Risangue, mio caro Mercante non credo sia adatta alla vita che voi così cortesemente volete donarle, una bastarda della natura non ha certo una vocazione per la vita altolocata”
“Fandonie!” Sento la mano sudata del mercante tastarmi il corpo sotto la casacca “E’ perfetta! Certo è un po’ ossuta, ma ci piace,” Annuisce soddisfatto “E poi venditore, una donna che tace è meglio di qualsiasi altra” e si allontana “Quanto volete per questa mezzosangue?”
“Ma mio caro mercante, osservatela bene vi prego, ha occhi verdi come il veleno dei serpenti e si sa che i capelli di quel colore denotano la cattiveria delle persone che li portano! Le due cose assieme non possono di certo essere un buon segno.” Insiste il venditore, non riesco a capire a quale scopo “Guardate le pupille come sono strette e le orecchie appunta come quelle dei gatti e delle bestie feroci!” Tira la catena appesa al mio collo “Ravvedetevi! Ho altre ragazze da vendervi!
“Insisto venditore” Dice il mercante, e l’uomo con la spada si avvicina, la mano appoggiata all’elsa “Non so a quale gioco state giocando, ma non lo giocherete con il grande Bakhstra, e se dico che la voglio, la voglio. Ora mi dica il prezzo, suvvia non vorrete mica che il mio amico sfoderi la spada.”
Il venditore alza le mani all’altezza del petto “Non oserei mai mancarvi di rispetto in questo modo,” Dice, ha la voce sottomessa e tremolante “Capisco la vostra volontà e non vi tratterrò oltre dall’esprimerla.”
L’uomo accanto al mercante arretra, allontanando la mano dalla spada, e quest’ultimo fa uscire dalla tasca un sacchetto porpora cinto da una corda gialla.
Il prezzo concordato è di sette efreeti e tre djinni.

Pietra e Ferro. -Capitolo 3.-

Rakhesh
Questa notte ho dormito distesa con una coperta.
Non ricordo l’ultima volta che è successo, non ricordo di aver mai stretto una coperta che non fosse sudicia e bagnata.
La schiena mi fa ancora male, ma posso muovere il collo e i polsi non mi pesano più. E’ strano avere delle mura attorno, delle piccole mobilie addirittura una porta; Un letto su cui appoggiare il corpo, è molto di più di quanto avrei mai sperato di avere.
Mi sollevo lentamente e mi sposto nella stanza. Non saprei dire se sia grande oppure piccola, il letto nel centro della stanza posso occuparlo completamente anche da sola, e davanti a questo c’è una piccola credenza vuota, sopra di essa perfino uno specchio, abbastanza grande da starmi nel palmo della mano, e se mi spingo a guardare fuori dalla finestra, posso vedere una palma solitaria e lo sprazzo di un fiume che passa in lontananza.
Mi domando se queste cose siano mie, anche se quasi non mi mordo la lingua al pensiero.
Il mio divagare viene bloccato quando sento il rumore meccanico del chiavistello della porta girare.
Al di là di questa appare un uomo, alto e completamente glabro. Porta una lunga tunica rossa dalla quale si vedono fuoriuscire delle scarpe a punta arabescate, gli affilati occhi scuri sono sottolineati da una riga di trucco.
Fermo con le mani nascoste dietro alla schiena, mi guarda dalle dita dei piedi fino alla punta delle orecchie.
Mi fermo al centro della stanza e abbasso la testa.
Dalla porta rimasta aperta, vedo entrare altre tre persone, tre donne.
Due di queste sono giovani, di qualche anno più di me, tengono il capo basso con deferenza, con le braccia dietro alla schiena, chiudono la porta e si appoggiano al muro.
La terza invece tiene il mento alzato ed entra per prima, mi si avvicina.
Una donna, anzi una Signora. Porta lunghissimi capelli neri, con leggeri riccioli sulle punte che le sfiorano le ginocchia, un lungo vestito porpora le copre i piedi, e le fascia il busto ed il seno con ricami preziosi, mettendo in risalto le forme. Un velo di stoffa leggerissima le si appoggia sul capo con delicatezza e si muove quando con le dita mi afferra saldamente il mento, ed il vestito si lascia cadere lontano dal braccio ingioiellato.
I suoi occhi azzurri mi scrutano lentamente, spostandomi non solo il viso ma anche il corpo, con una stretta salda. La sua pelle ha un forte odore di sapone e piccole rughe attorno alle palpebre e alle labbra, dai lobi delle sue orecchie pesano grandi orecchini circolari.
“Certo, è bella” Dice “Ma gli avevo detto di non comprare più dagli schiavisti” La sua voce è calda, sicura “Potrebbe essere una seccatura e potrebbe portarci addosso delle attenzioni indesiderate.” Mi lascia andare quasi di colpo e per poco non perdo l’equilibrio.
Dapprima si guarda attorno con aria seccata, per poi ritrovare il contegno e girarsi verso l’uomo “Ma ormai è qui, quindi faremo in modo di prendercene cura e non parleremo di questo piccolo incidente”
L’uomo annuisce e lei sorride compiaciuta, anche se per un secondo soltanto.
“Bene allora” Si rivolge nuovamente a me, “Sai parlare?”
“Si, Signora”
“Bene. E hai un nome?”
“No, Signora”
“Allora da oggi, ti chiameranno Shiloh.” Mi prende ancora una volta il viso “ ‘Il regalo per lui’, mi sembra adatto, ti piace?”
“Si, Signora, grazie.”
“Se ti comporterai bene, andremo d’accordo” Dice “Ora, Kolah, Malcha, portatela a lavarsi.” Vedo le due ragazze sussultare al suono del loro nome, mi domando se anche a loro è stato donato “Io devo attendere a mio marito.”
Così dicendo, si allontana verso la porta, già aperta dall’uomo glabro, e lascia dietro di se solo il suono della porta.
La giovane donna che mi scruta da piccoli occhi chiari stagliati sulla pelle ambrata deve essere Kolah “Vieni” Dice, la sua voce è monotonale.
Cammina sulla punta dei piedi scalzi, mentre mi trascina quasi a forza lungo un corridoio stretto e alto, costellato di archi decorati d’oro. Apre infine una piccola porta di legno e ferro battuto conficcata in un angolo del corridoio.
La sala aperta davanti ai miei occhi è ovattata e piena di vapore, ma riesco a vedere le colonne addossate alle pareti, disposte simmetricamente ad equa distanza, tra loro dei secchi e specchi di rame e degli sgabelli, al centro c’è una lunga vasca bassa in legno.
La ragazza che dovrebbe essere Malcha mi guarda, “Questi sono i bagni, ci puoi venire una volta sola al giorno” Dice, prendendo uno sgabello e posizionandolo davanti ad uno specchio appeso al muro “Di solito le altre ci vengono la sera” Si avvicina quindi a me per levarmi la veste. Mi sposto indietro. “Spogliati, allora.” Non è accondiscendente, né sembra preoccuparsi di fare una buona impressione, fa tutto velocemente e con gesti decisi. Vedo gli orecchini batterle sul collo come piccole mazze su di un tamburo color ebano.
Kolah va ad aprire un rubinetto, la cui acqua scorre nel secchio di legno “Il padrone pranza al suono della campana”
Levo la veste, nel sollevare le braccia sento la pelle tirare e subito dopo i capelli solleticarmi la fine della schiena, “Lasciala lì e siediti.” Dice Malcha
Lascio la veste a terra, e siedo sullo sgabello. Mi raggiunge subito una gettata di acqua fredda, svuotata dall’alto del secchio che Kolah tiene in mano, “Ora entra nella vasca”
Seguo diligentemente quello che mi dice di fare. L’acqua è calda, mi lambisce dolcemente mentre Kolah inizia a pettinarmi i capelli con un pettinino sottile “Il padrone è un uomo esigente, vuole da noi ordine e subordinazione, soprattutto pulizia e obbedienza” Dice “Ti sarà richiesto di accompagnarlo in città, di servirlo ai pasti, ti mostrerà ai suoi ospiti, e quando vorrà, ti prenderà la notte, o la mattina, o all’ora di pranzo. Sarai sempre accondiscendente, ti mostrerai disposta, mai sarai sconcertata o stranita, e sorriderai a qualsiasi richiesta. Farai tutto quello che ti chiede, sempre, e se ti comporterai bene non verrai frustata.” Così dicendo appoggia il pettinino a terra, prima di prendere un grosso ago appuntato alla veste e bagnarlo nell’acqua calda.
Mi guardo attorno e mi viene naturale chiedere “Anche i vostri nomi ve li ha dati la Signora?”
“No” Risponde Malcha, mentre si osserva le unghie, quasi disgustata dalla mia domanda “Noi non siamo arrivate schiave” Dice e Kolah ridacchia maliziosa. “La Signora gestisce l’Harem, sarà lei a dirti cosa fare e quando farlo, e non è magnanima, quindi ti conviene ascoltarla” Allunga poi la mano, sempre osservandola “Se no, chissà, potrebbe anche decidere di rivenderti”
Al solo pensiero, un brivido freddo mi trapassa la schiena. “Ma allora perché siete qui?” chiedo.
“I nostri padri sono ricchi, e sperano nell’ascesa politica del nostro Padrone.” Mi risponde Malcha “Perché un giorno probabilmente saremmo sue mogli. Insomma una cosa che a te non potrebbe mai succedere.”
“Certo che proprio non sai come funziona il mondo” Kolah afferra il lobo del orecchio più vicino a lei, lo tira verso il basso e non si cura della forma che ha, con un gesto fulmineo lo buca “Alla fine sei una bastarda, come potresti”
Fa male, non lo nego, ma meno del tatuaggio. La ragazza mi guarda ricercando nel mio viso il dolore che non ha sentito, ma non saprei dire se riesce a vederlo. Con lo stesso movimento buca anche l’altro lobo, dopo essersi spostata, ed infila nei nuovi fori degli anelli come quelli che porta lei. La pelle brucia, ma dubito si infetterà.
Mi dice di uscire.
Dopo avermi asciugata, mi mostrano come appuntare le stoffe colorate che compongono il mio vestiario, non troppo strette e nemmeno troppo larghe, dove lasciarle ricadere e dove invece stringerle, mi spiega che devono essere messe in modo che siano facilmente sfilabili, ma infilate negli anelli in modo che non cadano. Non sembra troppo difficile, ma mi dicono che se li metto male il padrone non sarà contento e non è una cosa che dovrei volere. Mi vengono infilati, in seguito, vari anelli sulle dita, sia delle mani che dei piedi che rintoccano sul pavimento ogni volta che mi sposto.
Mi ricordano che esiste una gerarchia, sia fuori che all’interno dell’Harem, che è mio dovere portare rispetto alla ragazze che sono qui da più tempo di me. “Se è mio compito, allora lo farò” rispondo.
Usciamo dalla porta a piedi scalzi.
Sembra passata un' eternità da quando attraverso una porticina, che si è rivelata poi essere una porta laterale. Siamo entrate in una sala immensa, come mai ne ho viste, con le finestre arcuate, ed i soffitti retti da archi dalla stessa forma.
Sembra passata un' eternità da quando ci siamo fermate contro il muro, accanto a due uomini armati vestiti di giallo e porpora sotto stendardi dagli stessi colori, con le braccia lungo i fianchi.
Al centro della sala circondata da uomini armati, vi è un tavolo lungo e basso, non ci sono sedie, ma cuscini ricamati da sbuffi dorati. Sopra di essi siedono sei uomini più il padrone. Mangiano e ridono, bevono e schiamazzano, l’ospite sempre con più vigore degli altri, mentre alcune giovani ragazze offrono cibo e bevande. Due di esse sorridono e siedono accanto al padrone inginocchiate, lui cinge i fianchi di una di loro con un braccio, mentre l’altra gli porge un grappolo di uva verde, da cui lui succhia avidamente un acino dopo l’altro. Noto poco lontano dal tavolo, l’uomo glabro vestito di rosso che fermo e composto tiene le mani dietro alla schiena, guardando un punto indefinito davanti a lui.
Gli uomini parlano di cose che mi paiono di poca rilevanza, ma non posso fare a meno di ascoltarli, viene accennata una gilda di mercenari più e più volte, e ne conseguono opinioni contrastanti ogni volta che vi si fa accenno. Sembra esista da tempo, ma che recentemente sia cambiato il capo, non si capisce invece cosa effettivamente ne pensino i signori. In seguito parlano dei commerci e di quanto siano favorevoli in questo periodo dell’anno, ne seguono degli aneddoti avvolti da risa generali.
Alla fine, si trovano a parlare di schiavi, dei venditori sfuggenti come serpi, i cui prezzi cambiano con lo sventolare del vento e l’allungarsi del sole.
“Signori” Il padrone sorride a bocca serrata, e muovendo le mani con autorità “Lasciate che vi mostri la nuova aggiunta al mio Harem” Dice, batte le mani e le apre, e con una pressione sulla mia schiena Kolah mi accompagna in avanti.
Una volta arrivate davanti al tavolo, lei piega la schiena in avanti con deferenza, compio lo stesso movimento, per poi riportarmi in posizione eretta.
Il padrone si alza con le braccia aperte e le mani in avanti, e sorridendo compiaciuto viene verso di noi “Eccola la mia mezzosangue! Bellissima rosa che incendia il deserto!” Con la mano aperta mi colpisce il fondoschiena, stringendo poi la carne con le dita, mi irrigidisco. Noto Kolah allontanarsi ancora piegata in avanti verso il padrone.
“Non è forse uno splendore estero? Chi mai può dire di possedere un fiore così splendente nel propri Harem se non il grande Baskhra!” Si compiace della propria grandiosità stringendo e premendo la mano sul mio corpo, girato verso i suoi commensali.
“Non mi sarei aspettato altro se non una vera rarità da voi Signore!” Un uomo vestito di marrone applaude lentamente sorridendo ed estasiandosi.
Sembrano tutti sorpresi e compiaciuti, tutti tranne uno. E’ un uomo alto, che siede dritto come una spada, tutto di lui emana autorità, dallo sguardo che pone su di me, fino al modo in cui poggia le mani sulle ginocchia. Porta i capelli rasati, se non per la parte alta della testa in cui i lunghi capelli scuri sono intrecciati con cura, sul mento ha un pizzo folto e dello stesso colore dei capelli, non sembra avere nessun segno di anzianità sul corpo, se non qualche ruga attorno agli occhi e sulla fronte. Ma la cosa che più mi colpisce sono gli occhi, gialli, come il sole la mattina presto, stretti e allunganti in uno sguardo neutro, che però si sposta continuamente lungo la stanza con vivacità quasi contraddittoria.
Quando parla nella sala scende il silenzio, non l’avevo ancora sentito dire neanche una parola “L’avete presa con voi nonostante ciò che si dice sui mezzosangue?” Dice, nella sua voce come nel suo sguardo non traspare nessuna emozione.
Il Padrone non sembra intimorito dall’uomo, anzi sghignazza divertito “Che si dica ciò che passa nella propria testa, mioDag’da, una donna è una donna, e finché conosce il suo posto e si lascia scopare che differenza fanno scempiaggini come le sue orecchie!”
L’uomo non cambia espressione, e il suo sguardo si ferma raggiungendo il mio: “Lasciate, Signore, che la guardi e vi dica con che genere di Ibrido avete a che fare, in modo che anche io possa carpirne la bellezza”
“Prego, venite!” Dice il Padrone ancora stringendomi la pelle “Guardatela e vedete di non sciuparmela!” Con espressione compiaciuta fa segno all’uomo di avvicinarsi.
Così, si alza, e con passo lento, senza emettere nessun rumore si avvicina, ringraziando solamente con un cenno del capo il padrone che si sposta di lato lasciando andare la presa che aveva su di me. Mi sento grande come una formica davanti agli occhi gialli dello Stregone, mentre mi scruta spostandomi il viso e i capelli con la mano, muovendoli come più gli conviene per guardarmi. Il suo tocco è caldo, come quello della sabbia sotto i piedi quando il sole ha appena smesso di scaldarla, di un tepore piacevole, che mi spinge a lasciarmi toccare, a rilassarmi e fidarmi, mi spinge ad appoggiarmi alla sua mano mentre mi tocca le orecchie e il viso. Il suo respiro non ha odore, e non ha quasi suono. Mi guarda come se cercasse di leggermi il sangue che mi scorre dietro agli occhi.
E poi si allontana, eleggendosi nella sua altezza, è alto un busto più di me. Guarda il padrone “Non ha più di quindici inverni, e proviene da una foresta molto a oriente da qui. Indubbiamente un suo genitore era unTagh’Dar, un lignaggio elfico aristocratico, mentre l’altro un semplice Art’Varran umano. La stirpe degli  Elfi la porta ad avere le orecchie più lunghe ed appuntite di quelle di un comune mezzelfo di prima generazione, così come gli occhi dal colore insolito e le pupille sottili. Avete comprato un bel esemplare Signore, degno di voi.” Dice, e torna a sedersi.
Il Padrone sembra ancora più compiaciuto, sorride, lo ringrazia e poi mi congeda.
Mi allontano.

Pietra e Ferro. -Capitolo 4.-

Rakhesh

E’ passata una settimana, la schiena ha smesso di farmi male.
Il padrone si limita a mostrarmi come se fossi una delle sue bestie che ogni tanto vedo nella sala da pranzo, mi tocca e si compiace. Vuole che lo accompagni quando va a piedi in città e mi fa servire i pasti, niente di più.
Ora stiamo camminando lungo le mura della città. Oltre al padrone ci sono gli uomini armati ed una donna, portiamo gli stessi vestiti e manteniamo la stessa distanza tra il padrone e tra noi.
La città sembra in festa ormai da qualche giorno, ci sono degli acrobati e delle danzatrici che vagano per le strade a mostrare le loro abilità tra la sabbia e la gente stupita che li guarda con ammirazione. Il mercanteggio si è anche fatto più vivo in quanto i venditori urlano e bandiscono le loro merci con più foga. Gli odori del cibo e delle spezie si sono fatti più forti, così come quello dei viaggiatori in sosta che portano aromi lontani e lingue mai sentite. Guardandomi attorno posso notare la vivacità della gente sotto il sole cocente e le loro schiene bruciate, il cielo è limpido e ribollente, ma sembrano non curarsene affatto, come nemmeno io mi curo della sabbia sotto i piedi nudi.
Ci stiamo dirigendo verso un edificio circolare dalle alte mura in pietra e legno, sormontato da una grande struttura con torri e balconi degli stessi materiali. Si trova ai confini delle mura della città e la sovrasta con i suoi stendardi rossi riportanti l’araldica nera di una spada posta nella bocca di un drago in una posizione circolare. Posso sentire anche dall’esterno il suono dell’acciaio contro l’acciaio, i rumori delle persone che si spostano e parlano, ed una voce forte che urla qualche comando.
Quando arriviamo di fronte al portone in legno solido, gli uomini armati che ci accompagnano lo aprono per far entrare noi ed il padrone.
La vista che mi si staglia di fronte non è affatto inaspettata: L’edificio è composto da un cortile esterno, dove dei giovani si stanno battendo con le spade, circondato da una veranda coperta dal tetto in legno che divide il passaggio dal cortile con delle divisorie, la struttura che invece sormonta il cortile ha due scalinate che risalgono fino al piano superiore, in mezzo ad esse è posto un portone quadrato che porta all’interno. Qui e là, vedo delle spade poste contro il muro, e delle persone in armatura che riposano all’ombra della veranda sedute su delle panche.
La superficie in pietra irregolare che compone il pavimento della veranda è fresco e consumato dal passaggio.
Dall’alto del piano superiore vedo un uomo, posto al centro del balcone, che urla dei comandi ai ragazzi che si battono al centro del cortile, noto che si tratta di un uomo giovane dalla pelle bruciata ed i capelli castani, e di una ragazza alta e grossa dai capelli biondi tagliati corti. L’uomo invece, che sosta sul bancone, ha la pelle scura come la notte, rasato sulla testa, porta dei vestiti rossi decorati d’oro e legati in vita da una grossa cintola di cuoio marrone, lasciando il busto scoperto le cui forme sono contornate da tatuaggi circolari. Alla cintura è appesa una grossa spada lunga e ricurva. Il suo viso porta gli stessi tatuaggi, che dall’alto della testa glabra cadono fino alla bocca dalle labbra scure, le orecchie appesantite da vari anelli in oro. Alle mani porta un anello con sigillo che mostra lo stesso simbolo delle araldiche appese alle mura.
Entriamo e ci incamminiamo lungo il lato destro coperto dalla veranda. Il padrone sembra non guardarsi attorno, e le persone sembrano non badare molto a noi, nemmeno quando raggiungiamo la scalinata e la percorriamo verso il piano superiore.
L’uomo alto e scuro si gira verso di noi quando raggiungiamo la balconata, come se si fosse appena accorto del nostro arrivo. Placa la sua voce e ci sorride mostrando i denti bianchi e perfetti “Oh Signor Bashktra! Quale visita! Qual buon vento vi porta?” La sua voce risulta più dolce quando parla rispetto a quando urla. Non pone troppo rispetto al padrone, che non sembra essere una persona di tanta rilevanza nella città.
Da come ho compreso dai discorsi durante le cene, è solo ricco, ma è poco potente ed il sultanato non si cura di lui più di quanto farebbe di un scarafaggio ai lati della strada; Tutti i suoi alleati sono in attesa della sua risalita in alta società.
“Salve, Tarqua” Dice il padrone facendosi aria con il ventaglio, sembrano conoscersi, almeno di convenienza “Sono qui per richiedere una scorta, vorrei parlare i dettagli con il vostro Capitano.”
“Ma certo” Dice l’uomo, “Lasciate pure qui la vostra scorta, al nostro Capitano non piace avere delle armi all’interno del proprio edificio”
Dunque il padrone per quanto con aria scocciata, fa segno agli uomini armati di aspettarlo qui. Così Tarqua ci scorta all’interno dell’edificio spartano all’esterno quanto all’interno, dove ogni tanto sono appese araldiche e scudi tra le porte tutte simili, fino a raggiungere una porta posta sull’angolo più esterno alle mura.
Apre la porta “Khemed!” Dice, “Il signor Bashktra è qui per richiedere una scorta, lascio a te le pratiche ed i dettagli.”
“Ci penso io, Tarqua, tranquillo” La voce dell’uomo, seduto dietro ad una scrivania al centro della stanza circolare, con i piedi appoggiati sul tavolo e la sedia piegata all’indietro, è bassa e decisa mentre sorride verso di noi, alzando gli occhi e chiudendo il libro che stava leggendo “Torna pure dagli altri.”
Sposta i piedi dalla scrivania, si alza, e con un gesto fa sedere il padrone davanti a lui.
Mi guardo attorno, la stanza circolare è ricoperta da una libreria colma di libri. Ci sono delle mappe appese sulle pareti di un giallo scolorito, e la finestra che dà sull’esterno è più come una porta che si apre su quella che sembra essere una seconda balconata, sulle poche pareti spoglie ci sono le araldiche e qualche spada. Mentre la scrivania è vuota, ad essa sono appoggiate due spade gemelle e ricurve con l’elsa avvolta da un tessuto rosso, il loro metallo è nascosto da foderi di cuoio scuro.
L’uomo è giovane, ed è anche lui a torso nudo, però a differenza del moro non ha tatuaggi ma tante cicatrici, alcune più profonde, altre leggere e altre ancora irregolari. Ha la pelle ambrata, con una colorazione dorata e qualche livido qui e là, quando si alza in piedi per riporre nella scrivania il libro che stava leggendo posso notare dei peli corvini che risalgono fino all’ombelico. Il viso è proporzionato, con una quasi invisibile barba scura che sta ricrescendo da qualche giorno, le sopracciglia folte ombreggiano occhi grandi e color dell'ambra, quasi gialli, posso notare delle pagliuzze più scure nell’iride che s’illuminano quando la luce incontra l’ombra delle ciglia, il naso piuttosto adunco si staglia sopra a delle labbra leggermente arrossate e piene. Porta i lunghi capelli corvini, raccolti solamente da un laccio rosso sbiadito quasi inesistente, gli arrivano poco al di sopra dei fianchi, e veste degli stessi colori delle araldiche, con qualche catena e laccio legato attorno ai polsi e al collo, i pantaloni marrone chiaro quasi del tutto coperti dalla veste rossa, interrotti da degli stivali in cuoio. E quando i suoi occhi si appoggiano su di me, mi sento accaldata ed il sangue avvampare nelle guance e nelle orecchie.
Distolgo lo sguardo e ritrovo la compostezza quando vedo il Padrone girarsi, incuriosito da cosa ha catturato lo sguardo del giovane Capitano, per poi rigirarsi scocciato.
“Allora” Dice, il tono della sua voce sottolinea ancor di più l’espressione che ho visto sul suo viso “Necessito di una scorta, armata e prodiga, che accompagni me in viaggio fino alla Grande Città , dove dimora mio cugino”
Il Capitano sembra curarsi poco di quello che dice il Padrone “Si,” Si gira verso la porta, verso la balconata “Quante persone avete intenzione di portarvi dietro?” Con sguardo perso adocchia il deserto e le sue dune.
“Un carro di buoi per me certamente, uno per quattro delle mie cortigiane ed uno per i doni che intendo portare al mio caro cugino” Si liscia i pochi peli sul mento, contando con le dita “Dispongo in oltre di cinque uomini armati che possono accompagnarmi, come difesa personale si intende, dato che gli altri di cui dispongo devono proteggere la mia dimora.”
Vedo il Capitano avvicinarsi alla scrivania ed estrarre da un cassetto una mappa logora e ingiallita “La capitale non è troppo lontana, si tratta di un viaggio che a dorso di cavallo o cammello richiederebbe pressappoco una luna, ma siccome parliamo di una carovana di buoi allora richiederà poco meno del doppio del tempo.” Con un coltellino, estratto dalla cintura, segna quello che sembra essere il punto di arrivo “Venti dei miei uomini si uniranno a me nella scorta, percepiremo cinquecento eefreti per l’andata e per il ritorno, più venticinque a testa per la sosta a Iztara.” Solleva il coltellino, rigirandolo tra le dita.
Il padrone annuisce.

Pietra e Ferro. -Capitolo 5.-

Rakhesh

Quella sera la luce cala lentamente, a ridosso di un tempo che sembra assopirsi nella sua stessa attesa.
Ceniamo sedute a terra, sui morbidi tappeti arabescati nelle sale comuni dell'Harem, dove ribatte l'aria più fresca della sera attraverso le grandi finestre nascoste nella parte piu lontana del giardino. La calura ormai scomparsa e la luce sempre più bassa, accompagnano la cena ed il richiamo verso il sonno.
Le ragazze parlano, e le ascolto placidamente, mentre mi lascio sfiorare dai sospiri sottili del vento serale, le luci ed i colori della casa sbattono e battono contro i miei occhi socchiusi.
E’ piacevole il leggero chiacchiericcio, l’odore del cibo e quello lontano della città, e mentre mi riposo sui soffici mormorii della sera quel strano calore dell’aria somiglia tanto al calore delle mani dello Stregone, e mi torna in mente la sensazione di sicurezza che mi ha attratto, così accogliente e così accomodante.
Ad interrompere quella che la sensazione del tepore che accompagna solo i sogni, è la porta che si apre ed il vocio che si interrompe. Le ragazze si alzano in piedi, io con loro, in attesa.
Si tratta del glabro domestico, che come ogni sera è venuto a disporre gli ordini per il giorno successivo ed ad ordinare alla ragazza che il padrone ha scelto di raggiungere discretamente le sue stanze. Noto con curiosità che fuori dalla porta il domestico è accompagnato dalla Signora.
Ogni sera lo guardo, e attendo ansiosa, con il timore di sentirmi chiamare, ogni sera la mia paura viene soffocata dal nome di un'altra.
Ogni sera tranne questa, questa notte è a me che rivolge il suo sguardo, è me che chiama ed istruisce sul lasciare il letto del padrone prima del suo risveglio.
Mi si attanaglia l’intestino mentre parla, sento la bile risalirmi la bocca.
Ho paura, mentre mi avvicino alla porta, e sento il braccio della Signora toccarmi, la sua mano stringermi la spalla.
Non riesco a pensare ed ho paura, mentre l’uomo mi accompagna lungo i corridoi e le scale che sembrano infinte.
La sua voce, quella della Signora, anche i miei respiri, si mescolano in un turbinio che altro non fa se non lasciarmi confusa, attontita, come una cane alle prime botte dategli in gabbia. Sento il cuore portarmi velocemente il sangue alle vene. Guardo in basso e l'aria è sempre meno.
Una parte del mio animo che mi ha tenuto in vita tutto questo tempo mi dice di scappare, correre via, uscire dal palazzo e dalle sue mura. E per un attimo, continuo ad ascoltarlo, e l'adrenalina sale su dalle mie caviglie, prende possesso del mio sangue. Devo appoggiarmi ad una parete per non scivolare a terra, costringermi a non fuggire.
Sono quì per questo, cosa mi aspettavo? Il mio corpo vale quanto il pavimento su cui cammino ogni giorno. Sicuramente non è mio discapito decidere come usarlo o quando fruirne. Fuggire è una stupidaggine, non posso scappare, la mano della Signora sulla mia spalla me lo ricorda e mi sostiene al contempo.
Il domestico apre la porta, dice di spogliarmi e di stare ferma seduta sul letto, tra non molto arriverà il padrone, mi ripete ancora di lasciare la stanza dopo che si sarà addormentato.
Io la stanza la voglio lasciare ora, voglio andare e correre via, in quei boschi che a malapena ricordo.
Non proverò mai più una paura così grande.
Slacciandomi i vestiti, riponendo gli anelli della veste, sento la testa pesante e la vista offuscata. E’ un incubo, non può essere altro.
Mi siedo, aspetto, la Signora accanto a me.
Sembrano passare anni, guardo dritta davanti, fuori dalla finestra aperta. Non sento il vento entrare, non sento le voci della città ancora sveglia, non sento assolutamente niente. Mi sento un coccio ai lati della strada che aspetta solamente di essere calpestato, di essere fatto a pezzi.
La porta si apre.
Piango e la Signora mi bacia tenendomi il viso, le labbra senza nessun sapore, il suo respiro dolce, la sua lingua tra i miei denti e il mio palato. Chiudo gli occhi.
E' calda, mi dispiace bagnarle il viso.

Pietra e Ferro. -Capitolo 6.-

Rakhesh

Ogni notte. Ancora e ancora.
Non riesco a riposare, perché ogni volta che chiudo gli occhi sento il fiato afoso del padrone sul corpo, come se si rintanasse nelle coperte del mio letto, sotto la pelle. Chiudo gli occhi e vedo il suo viso viscido, il suo sguardo eccitato.
Non riesco a mangiare, il cibo non ha sapore, mi sembra sempre di avere la sua lingua ficcata nella gola. Non riesco a concentrarmi sugli odori, né sui rumori.
E’ come se vivessi in un mondo ovattato, dove le sensazioni si bloccano prima di incontrare il mio corpo, dove le giornate sono sempre uguali, e le notti sono incubi, dove vengo presa più e più volte, da mani che non voglio e da pelle che non desidero. Non so per quanto ancora posso resistere.
Sto impazzendo.
Cerco di distrarmi, ma ogni cosa richiama quei momenti, e quei momenti richiamano la bile e il suo risalirmi lungo la gola.
L'unico pensiero che mi costringe a restistere, come una candela accessa nel buio della notte, è quello delle mani della Signora. Le sue labbra morbide, le sue dita calde, il suo petto che accoglie il mio viso, ed i suoi capelli che raccolgono le mie lacrime.
Verso di lei, quelle notti, sento la volontà di aprirmi, e lasciarmi toccare, il suo tocco che mi incanta e mi scioglie il petto. Non posso e non riesco a scappare da quelle braccia, da quegli occhi. La dedizione totale che si è impossessata di me nei suoi confronti, è più forte di qualsiasi dolore che mi può procurare il padrone.
Ora sono in piedi, davanti l’arco d’entrata della casa del padrone, accanto a me tre ragazze. Le ragazze ridono e sorridono ai mercenari che ci passano davanti sui loro cavalli  dalle coperte rosse,  alcuni di loro ricambiando gli sguardi e gli ammicchi delle ragazze.
Guardo con distanza quello che mi circonda, sento gli sbuffi dei buoi, sembrano leggeri come il sole che mi bacia la pelle, coperto da una sottile coltre grigia.
Vicino a noi il padrone ed i suoi uomini attendono l’arrivo del suo carro, gli uomini stanno fermi accanto a due cammelli seduti, prossimi a questi ce ne sono altri tre che bagolano attorno al secchio con il fieno, masticano distratti, sembrano avere la stessa attenzione che pongo io alle cose circostanti. Però, poco lontano da lui, la Signora, sosta con il viso coperto, aspettando anche lei, mentre se ne sta ferma con la testa ritta, si guarda attorno ad occhi socchiusi, non sembra curarsi dei giovani che ci passano davanti; la guardo e lei non si cura di me, come dovrebbe fare, nonostante questo, la giornata non è così insopportabile.
Arriva il carro ed il padrone sale, arriva di seguito anche il nostro e saliamo a nostra volta.
I tre carri si spostano lentamente, grattando le ruote in legno sulla sabbia, le giunture di metallo cigolano negli spostamenti ed i veli sottili appesi alle travi del carro, per celarci alla vista esterna, ballano allo stesso ritmo. Per quanto questi veli che coprono i carri  siano colorati e sontuosi, per quanto gli uomini sui cammelli ed i mercenari sui cavalli siano armati, nessuno si cura del passaggio di questa vistosa carovana.
Seduta all’angolo con la schiena appoggiata su di una trave guardo fuori da uno spiraglio delle tende, sotto di me comodi tappeti e cuscini alleggeriscono i colpi dati dai movimenti dei buoi, ma non alleviano il tintinnare delle tazze da caffè appoggiate su di un vassoio al centro del carro.
La vista non mi sorprende quando usciamo dalle mura della citta, l’ho già vista più volte la sabbia, che anch’oggi non ha deciso di cambiare e tramutarsi in erba, nonostante questo continuo ad osservare distratta.
Sento poco dietro al nostro vagone, l’ultimo della carovana, il battere degli zoccoli sulla sabbia che ci si accostano. Giro le pupille a guardare il nuovo arrivato, è un cavallino alto e snello, il mantello scuro come quello dei buoi, l’occhio vivace e attento squadra il carro sorpreso, quando lo sposta si nota una chiara mezzaluna bianco sporco iniettata di sangue che corona un occhio scuro e profondo, le nari dilatate ed il respiro leggero, pronto a schizzare al minimo tocco di talloni del suo cavaliere, un tocco però che non riceve. Il cavaliere è fermo e rilassato, ciondolante ai passi leggeri della cavalcatura, con lui balla anche la spada che porta sul fianco, il fodero appoggiato al fianco scuro del cavallo, e le vesti rosse e oro pendenti dalla cintura di cuoio legata ai fianchi sotto al petto nudo dell’uomo.
Si tratta del Capitano dei mercenari che guarda davanti a se, eretto e fiero, il mento alto sul collo quasi del tutto coperto dai capelli appoggiati sulla spalla che con gli stessi movimenti del cavallo gli battono sulla pelle, noto che sono ancora legati da quel laccio sbiadito, e vedo sul suo fianco sopra alle costole uno strano simbolo inciso, come una cicatrice, leggermente azzurrognolo sulla pelle cicatrizzata.
Accanto a lui si accosta un altro cavallo, rosso come la coperta che porta, i cui muscoli guizzanti sono interrotti solo dai finimenti in cuoio, come l’odore dell’altro equino gli raggiunge le nari, questo inarca il collo e con lo zoccolo possente colpisce la sabbia, emettendo un basso nitrito, somiglia ad un mugugno più che ad un verso. Sulla sella siede l’uomo moro, si tiene fermo nonostante i movimenti della cavalcatura, il nero dei tatuaggi, più scuro della sua pelle, luccica quando i sottili raggi del sole lo incontrano.
Si scambiano qualche parola e qualche gesto, il Capitano sorride ed indica un punto davanti a se, alzando il braccio e piegandosi con il gesto, così il moro ed il cavallo rosso si spostano seguendo l’indicazione.
In un silenzio quasi statico, la carovana continua a muoversi.

Pietra e Ferro. -Capitolo 7.-

Sultanato di Iztara

Sta tramontando quando ci fermiamo in un pezzo di terra verdeggiante che circonda uno specchio d’acqua. E’ la prima volta che vedo delle palme al di fuori della città, sono piegate e muovono leggermente le fronde all’aria fresca della sera in arrivo.
Gli uomini armati montano la tenda del padrone, ed in seguito la nostra. Sono tende di tessuti pesanti e sgargianti, abbastanza ampie da avere  due stanze, sorrette da solidi pali in legno conficcati nella sabbia, quella del padrone ha il colore del vino e gli arabeschi gialli, la nostra è rossa. Noto che anche i mercenari stanno montando delle tende, piccole ed del colore della sabbia.
Vengono poi piantati anche dei pali per i cavalli, i buoi ed i cammelli.
Guardo con leggera curiosità lo specchio d’acqua chiara, sembra fresca, ed è per lo più coperto dal basso fogliame che ha la stessa forma delle foglie delle palme.
Accendono un fuoco, al centro dell’accampamento, e su due pali sopra alle piccole fiammelle, appoggiano un calderone.
Io e un’altra ragazza veniamo incaricate di portare l’acqua per le bestie, allora con dei secchi di legno nelle mani andiamo verso la pozza,  in silenzio, senza nemmeno guardarci. E’ chiaro che non vuole parlare con me, anch’io non saprei cosa dirle, allora la guardo solamente mentre riempie i suoi secchi, con la lunga treccia di capelli scuri che le cade dalla testa e sfiora le sponde della pozza quando si piega, mi domando se anche lei come me è stata comprata o se è stata donata dai suoi genitori al padrone, in cambio di qualche piccola fortuna.
Torniamo indietro, i secchi sono pesanti, ed il manico in ferro mi taglia il palmo della mano, devo fermarmi più volte ed appoggiarli a terra. La seconda o terza volta che mi fermo, uno dei mercenari mi raggiunge. E’ una ragazza, alta una testa più di me, le braccia muscolose all’altezza della spalla portano dei bracciali dorati, non porta armatura, ma la stessa veste rossa degli altri appoggiata delicatamente su di una spalla e legata in vita da una cintura di cuoio che porta una spada piccola e dritta, ha i capelli del colore del legno delle palme, legati in una coda liscia che le parte dall’apice della testa, qualche ciocca le cade sul viso, ha delle belle orecchie tonde.
Mi guarda e io la guardo, prende un secchio con la mano “Se ti fanno male le mani, solleva un secchio solo dalla base, così non ti cadrà nemmeno l’acqua” non sorride, non voglio nemmeno che lo faccia, ma sembra amichevole, faccio come dice.
Mentre camminiamo, ogni tanto mi guarda per assicurarsi che non resti indietro, “Mi chiamo Alya, e tu?”
La guardo. L'unico nome che mi ricordo, è quello che mi ha dato la Signora “Mi hanno chiamato Shiloh” Dico, lei mi guarda e non dice niente, non capisco se la risposta le è piaciuta.
Portiamo i secchi davanti ai cavalli e li appoggiamo davanti ai pali, “Allora ci vediamo” Dice e sorride leggermente, la saluto a mia volta e vado lentamente verso la mia tenda, stanno distribuendo la cena.

E’ tardi quando esco dalla tenda del padrone, il suono del suo russare mi accompagna fino all’uscio, dove due dei suoi uomini stanno di guardia. Il fuoco al centro del campo scoppietta ancora, e rilascia un debole odore di legno bruciato.
Cammino con le vesti strette tra le braccia davanti al petto, sono molti quelli addormentati, ma comunque quasi nessuno mi presterebbe attenzione. Mi asciugo le lacrime sul viso accaldato con una mano e sento il seme del padrone che mi cola lungo le cosce, mi affretto verso l’acqua.
Lascio i vestiti sull’argine, ed entro nella pozza.
L’acqua è fresca e poco profonda, mi copre fino sopra al seno quando mi inginocchio, la sabbia è morbida. E’ piacevole, è la sensazione migliore che ho provato nell’ultimo periodo.
Piego la schiena all’indietro, bagnandomi i capelli, le orecchie, e poi guardando il cielo notturno e le sue mille stelle spingo affondo anche il viso.
Riaffioro, e resto lì in ginocchio a respirare, mentre l’aria che sembra ghiacciata mi bacia il viso.
E poi sento un rumore, che nel silenzio dei miei pensieri si abbatte come uno specchio sul terreno, dei passi venire da dietro agli arbusti, mi giro velocemente ma non mi sposto. E’ l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere sveglia, ma anche la più ovvia, è il Capitano dei mercenari.
Mi guarda e io lo guardo, faccio per uscire, “Non occorre che esci-" Si siede a terra, "Non sei la prima donna che vedo nuda”.
Lo guardo ancora, nel  suo sguardo c’è solo attenzione, non su di me ma su quello che lo circonda,“Come ti chiami?”  Guarda le dune e l’orizzonte come un falco che dall’alto della sua roccia cerca di scorgere una preda
“Shiloh, mi chiamano” Mi viene da sorridere, “Nessuno lo aveva mai chiesto prima”
“Il nome di una persona è importante, il tuo nome sei tu” Dice, non sembra confuso dalla mia risposta, anzi è divertito “E’ l’unica cosa che sarà tua per sempre”
Bagno ancora una volta i capelli, piegando la schiena all’indietro, e li sposto dalle orecchie, mettendole bene in mostra “E' in prestito, non è mio” Dico, ma questa volta non rido “Non ho niente di mio” Lo guardo negli occhi.
Sento i suoi occhi scrutarmi “Quel tatuaggio, fammelo vedere meglio” Mi giro, mostrandogli la schiena e sposto i capelli bagnati sulla spalla
“Ha fatto male?”
“Si, ma ho scoperto che esiste di peggio” Guardo l’acqua muoversi attorno a me, in lontananza un’animale selvatico guarda la pozza con le orecchie in avanti  “Lo hanno curato bene credo, non lo sento più.” E' la prima conversazione che intrattengo, da molto, moltissimo tempo.
“Chi eri prima di essere venduta?”
“Non lo so, non me lo ricordo, ero troppo piccola.”
“Tua madre? Tuo padre?”
“Non lo so.”
L'animale, piega le orecchie all'indietro, il naso verso il cielo, il fiato vaporoso contro la notte sembra una nuvola. Poi in un lampo scappa via, sparendo tra le dune.
“A quanto ti ha comprato?"
“Al prezzo di un cammello.”

Pietra e Ferro. -Capitolo 8.-

Sultanato di Iztara

La mattina è già ben che inoltrata quando partiamo nuovamente, il cielo è grigio pallido e la nostra carovana sembra vagare senza meta in un mare di sabbia scura, i colori che mi circondano sono acidi, fastidiosi, mi mettono a disagio.
Muovendoci, sembriamo non emettere suoni, come se tutto fosse stato inghiottito da una nuvola, l’aria è pesante, umida dal caldo e dal sudore. I buoi sono instancabili, tirano senza fallo le pesanti ruote, mentre non si riesce a vedere a più di dieci passi  in qualsiasi direzione. Il vento non sembra intenzionato ad arrivare e spazzare via l’aria greve.
Dopo qualche ora di cammino, sono tutti provati, bestie e non, o almeno tutti quelli che vedo sembrano esserlo, le ragazze nella mia carovana si sventolano il viso con dei ventagli di legno, vedo qualche goccia di sudore solcare il loro viso, ma nessuna emette un suono.
Regna un silenzio innaturale, come se il tempo si fosse fermato in un momento di attesa, attesa di un qualcosa di sconosciuto.
Avanziamo, le spire gialle acide del sole si infiltrano come spade, tagliando il grigio dell’aria come se stessero squarciando un cadavere, eppure non riesco a vedere la calda sfera cocente.
Fa caldo e non riesco a respirare.

Ci fermiamo quando sembra essere scesa la sera, sebbene i colori siano sempre uguali, acidi e malati. Questa volta però non c’è una pozza accanto all’accampamento, nemmeno delle palme, solo il freddo deserto e la sua sabbia.
Alcuni uomini scavano una buca vicino alle tende, dopo averle montate.
L’acqua sta sera è sporca e fangosa, ma nessuno se ne lamenta, e tutti bevono avidamente prima di portare i secchi agli animali.
Sono tutti stanchi ed accaldati, il padrone è nella sua tenda e non sembra voler vedere nessuno, infatti vengo chiamata solo a sera tarda.
E’ veloce più del solito, quando finisce mi dice di restare, e gettatomisi addosso si addormenta, pesante e sudato. Riesco in qualche modo a scivolare via dal suo corpo, dopo un poco, non voglio respirare il suo odore, non voglio respirare affatto.
Ma prima che possa raggiungere l'uscio, un suono mi obbliga a voltarmi. Dietro alle tende di una stanza, sento una voce mormogliare e mugugnare "Shiloh, sei tu?" La voce della Signora e sento il cuore sprofondarmi nel petto.
"Si Signora, stavo uscendo, come ordinatomi."
"Vieni qui"
Stringo forte i vestiti che tengo tra le braccia, con un veloce respiro li indosso, ed entro nella stanza.
La Signora è seduta su di un letto basso, tra soffici coperte e cuscini vari. Si vede chiaramente il sonno nei suoi occhi socchiusi, mentre la casacca che indossa le scivola giu, lasciando una spalla scoperta.  
Resto ferma all'entrata, con la testa bassa.
"Vieni qui" Dice di nuovo, invitandomi a sedere sul letto.
Mi siedo accanto a lei, che con le mani mi accompagna a posare il capo sulle sue gambe rannicchiate. Mi sento a disagio, su queste coperte morbide, in questa posizione, per nulla consona al mio stato.
"Sei stanca, chiudi gli occhi" Dice, "Riposa qui con me adesso"
Le sue mani calde, affondano nei miei capelli, accarezzandomi la testa, la fronte, la punta delle orecchie.
"Mi sento sola, sai, Shiloh" Dice, "Tu passi tutte le notti con mio marito, ed io, povera me, nella mia solitudine"
"Mi dispiace Signora" Dico, ma le sue dita mi passano sulle labbra, zittendomi
"Shh" Indugia sugli angoli della bocca "Non ti ho detto di parlare"
 I suoi polpastrelli passano sul mio viso, lentamente, lungo le mie palpebre, le guancie, il naso e mi sento accaldare.
"Anche io voglio quelle attenzioni sai?" Dice, la sua voce leggera, quasi silenziosa "Anche io voglio venire a rotolarmi con te"
Come per magia, il suo odore si fà più forte, mentre la sua mano scivola lungo il mio corpo, attraverso i tessuti. Mi inarco e mi lascio toccare, in estasi.
"Dalle anche a me" Dice, la sua bocca morbida sulla mia.

Pietra e Ferro. -Capitolo 9.-

Sultanato di Iztara

Un altro giorno passa, senza avvenimenti ed è sera molto tarda quando esco dalla tenda del padrone.
Sembra quasi fare più caldo all’esterno, esasperata dall’afa mi guardo attorno alla ricerca di una pozza d’acqua, oppure di un secchio abbandonato all’esterno, lontano da occhi indiscreti, così da potermi rinfrescare.
Questa sera la Signora non mi ha chiamato da lei, e durante la mia uscita ho indugiato per un secondo alla sua porta, sperando.
Ma sfortunatamente, nulla.
Ora trovo solo secchi vuoti accanto le bestie. I buoi grattano sonnecchianti la sabbia con i nasi scuri e bagnati, sollevando i granelli con il respiro. I cammelli distesi sulle grosse pance pelose, le lunghe gambe nascoste tra la sabbia e il giallo macchiato del loro pelo, mi guardano con grandi occhi umidi, masticando ritmici dalle labbra divise, come una danza. Avvicino lenta la mano al grande naso aspettandomi l’ispidezza dell’erba, o quella della corteccia. A sorpresa ritrovo però la morbidezza della sabbia, bagnata un poco dall’acqua.
Rido al solletico dato dal respiro curioso del grosso animale peloso.
“Ne hai mai cavalcato uno?” Una voce bassa e famigliare interrompe la quiete.
Mi giro di scatto, come se una mano mi avesse costretto a voltarmi, afferrandomi saldamente la spalla. Il Capitano mi guarda con il suo sguardo assente, a pochi passi da me.
“No” Accarezzo lentamente la guancia del cammello, che piega leggermente la testa verso di me
“Bestie cocciute e scomode” Scalzo sulla sabbia e vestito di seta e pelle conciata, l'uomo è appoggiato ad un palo con il fianco. Passa i polpastrelli sul naso di un cavallo scuro “Non sono adatte se si intende impugnare un’arma” Quando l’animale si spinge verso di lui con il labbro, piega in dietro la schiena e sorride.
“I cavalli invece” Dice, allunga una mano, come ad invogliarmi ad avvicinarmi a lui, e quella mano, così sicura, con la pelle che sembra bronzo caldo, aspetta solo di essere afferrata.
E io l’afferro.
Mi tira delicatamente a lui, mettendomi tra lui e l’animale, impercettibilmente fa scivolare la sua mano sulla mia appoggiandomi piano al pelo nero, ai muscoli guizzanti del cavallo che mi guarda con l’occhio girato, la mezzaluna bianca rivolta cieca verso il cielo notturno.
“Oh, i cavalli invece sono veloci, indomiti” Sento il suo fiato vicino al mio collo, mentre accompagna la mia mano sul pelo del cavallo, i pezzi di cuoio dei suoi vestiti sfiorano la pelle della mia schiena coperta solo dal sottile tessuto trasparente  “Tra la mia gente si dice che possedere un cavallo è possedere il fuoco del deserto e la libertà del vento”
Il viso mi si arrossa, mentre parla, e mi sfiora, lo sento ridere a bassa voce.
Ma non smette di scambiarmi quelle parole, che sembrano così intime “Lei è Zipporha” dice, e la cavalla sbuffa, come a riconoscere il proprio nome
Si avvicina al mio orecchio discostando i capelli che lo coprono, abbandonando la mia mano sul naso della cavalla “Vuoi cavalcarla?” Chiede
“Non saprei come” Dico
“Posso mostrarti”
Si guarda attorno velocemente, ed appoggia una coperta sulla schiena dell’animale, ne assicura le briglie, e tenendosi sulla criniera sale. Tiene le redini con un mano e mi porge l’altra. Quando gli porgo la mia titubante, mi stringe con forza l’avambraccio e mi fa sedere dietro di lui.
“Tieniti a me” dice facendo passare le mie mani attorno i suoi fianchi. Li sento rilassati, la vita solida dai muscoli, la pelle calda e nuda. E' un calore invitante, come quello dello stregone, mi spinge a fidarmi, a farmi portare.
Però non posso, già mi sono spinta troppo, sento il peso di questa possibile scelta e non sono pronta a scoprirne le conseguenze. Altre sono state punite per molto meno.
Allento le mani dalla sua vita, in un gesto spasmodico dettato dall’ansia. Lui si gira, mi guarda perplesso, non sorrido, non lo guardo, scendo dalla schiena dell’animale, che scalpita sotto il peso del suo cavaliere.
“Dove vai?” Dice.
“Credimi, mi piacerebbe venire con te, ma se lo scoprono mi frusteranno,” Guardo le tende, come scintille brillano i loro colori e le loro ombre “L’ho già visto fare.”

Mi giro verso le tende, sento gli zoccoli della cavalla alzare la sabbia, sembrano i passi di un gigante, e l’incito del cavaliere ad avanzare è il suo urlo di battaglia.
Attraverso l’entrata dell’accampamento, il primo fuoco acceso, i mercenari ritti accanto i pali d’entrata, e una donna siede rilassata poco distante dal fuoco, una pietra in mano, la lama ricurva appoggiata sulle gambe. Il suono cadenzato della pietra sull’acciaio.
Il suono della sua voce, profonda, irrompe sulla ritmica danza “Non venirtene a male, si comporta così con ogni paio di begli occhi che incontrano i suoi” Dice, ma non mi guarda “Ed i tuoi sono davvero belli”
La guardo, attenta nei suoi movimenti, ripete lo stesso gesto, ancora e ancora.
Mi guarda.
La vedo.

Pietra e Ferro. -Capitolo 10.-

Sultanato di Iztara

I giorni passano, come visioni di una vita che non mi appartiene.
Sole alto, nebbia, caldo, secco.
Già visto, già vissuto.
Vogliono prolungare la corsa, invece di fermarsi ogni notte, due saranno i giorni di avanzata e una la notte di riposo, l’acqua verrà caricata sui cammelli, e a cambio verranno girati i cavalli e le avanzate a piedi. I guerrieri a riposo verranno stipati sul nostro carro.
Oggi ci sono tre uomini ed una donna, uno di questi è il moro, Tarqua.
Fuori dalle tende del carro, sento i cavalli, e le parole degli uomini, le parole del padrone, forti contro il vento del deserto, la sua rabbia sembra nulla a pari di quella voce che ho imparato ad odiare. Il moro mi guarda, seduto al mio fianco. Occhi scuri, attenti, sembra essere l’infinito che mi osserva, ha gli occhi grandi di uno che ha visto tante cose.
Appoggia una mano sulla gamba piegata, il palmo chiaro verso l’alto, guarda i miei occhi e guarda il palmo. Dalle sue dita si accende una fiamma, piccola e rossa, la gira sui polpastrelli.
Lo guardo stupita, non sapevo esistesse una forza tale da piegare anche il più potente degli elementi, “Dove lo hai imparato?”
“Sono nato con questo potere” La sua voce è dura, come roccia, sembra provenga dalle profondità di una caverna, e non dalla gola di un uomo “ Ho imparato a controllarlo a est di qui, a Natastara.” Ma è dolce, senza cattiveria quando mi parla
“Natastara?” Chiedo, le risatine delle ragazze nel carro assieme a me, che adocchiano i giovani mercenari con occhi lascivi, sono leggere e acute, come il vento d’autunno che batte sulle foglie più basse degli alberi.
“E’ una grande citta, un porto, affacciato sul mare”
Il mare, dovrebbe essere come un lago di acque salate, ma senza fine, senza sponde visibili all’occhio, uno schiavo non smetteva di parlarne “Portatemi al mare, al mio mare, lontano dalle pianure, lontano dalla terra, lontano dai vostri mostri!” Diceva delirante con le braccia rivolte al cielo; gli avevano tagliato la lingua e non aveva più parlato.
“Dubito la conosci o la conoscerai” Dice, riportandomi al presente, la fiammella ruota sulle sue dita, senza bruciarlo, come una moneta “Ma è lì che ho conosciuto Khemed”
Lo guardo, mentre sembra ricordare con nostalgia il porto ormai lontano, quelle acque chiare o in tempesta, che ormai compone solo ricordi e niente più, ne parla con dolcezza, come se quel luogo lontano fosse la culla dei suoi sogni, dondolanti sulle onde.
“Era solo un ragazzo, un ladro, e lo ero anche io. Piccole fiammelle del Caos. Io scelto dal Segno, lui dalla spada di Al'Rhadann” Sorride, una falce bianca latte su di una bocca d’ebano, mi confida questi ricordi, forse si aspetta che li conservi anche io “Gli ho insegnato a leggere, sai? ” Mi guarda, incuriosito: “Tu sai leggere? Scrivere?”
Scuoto la testa, ed il carro scuote con me, accondiscendente lungo i movimenti dei buoi, mentre le ruote scricchiolano sulla sabbia.
“Non è il dovere di una schiava imparare a leggere e scrivere” Sento la voce di Kolah seduta sul lato opposto del carro “Come non lo è portare armi”  Intenta a cucire un lato dell’abito del padrone dalla stoffa colorata e accesa “Suo dovere è invece prodigarsi per il suo Padrone, dargli piacere” Mi guarda, uno sguardo freddo, di disappunto, nei suoi occhi da cervo non c’è luce benevola “E  se un giorno desidererà, e il cielo sarà buono, dargli un figlio.”
I miei occhi incontrano il pavimento di legno e ferro e le sue coperte colorate, morbide, ma troppo calde per le giornate nel deserto.
“Dieci dei miei uomini erano schiavi, quattro di loro sono donne” Il moro la guarda, ed io guardo lui “Ognuna di loro vale tre degli uomini del vostro padrone.” La fiammella nella sua mano si fa più grande
“Quando una schiava viene comprata, ancor prima, catturata, la sua vita non è più sua” Melcha non lo guarda, non si cura della fiamma tra le sue mani “E’ del suo padrone” Guarda me invece “Fino alla morte” La sua voce giovane, è piena di disdegno quando pronuncia queste parole.
“Le mie guerriere si sono conquistate la loro libertà, come ho fatto io un tempo” Stringe la mano, e la fiammella si spegne in mille scintille rosse “E ora la vita è loro”
Ancora una volta mi guarda, e i suoi occhi sono come la luna piena, silenziosi come un filo di vento tra le sottili foglie di palma “Spero che quando sarai pronta, saprai fare lo stesso” La sua bocca non si muove, ma la sua mente parla nella mia.
Ed i buoi sbuffano.
Ed il sole cala.

Pietra e Ferro. -Capitolo 11.-

Sultanato di Iztara

Passano i giorni e le settimane, gli accampamenti, sono come granelli di sabbia nella clessidra di una delle ragazze, Dasha; la conserva come il più grato dei regali, ed io non posso far altro che osservare la lenta dipartita dei granelli, e ripensare alle parole del moro, pensieri che trovano rifugio nel pugnale del Padrone. Lo vedo sempre, dapprima legato alla sua cintura, nel suo bel fodero di legno appeso, appoggiato al lato del letto quando mi prende, nascosto sotto al cuscino quando si addormenta. E’ un bel oggetto, così chiuso nel legno, la sua impugnatura gialla e viola, mi domando come sia quando se ne scopre, nudo nel suo acciaio, sarà un acciaio chiaro come quello delle spade dei soldati? Oppure un colore più scuro, come quello delle spade del Capitano?
Il mio sonno è ormai diviso tra l’incubo del padrone, ed i sogni di un bambino che guarda le navi del porto, con grandi occhi luminosi e la pelle del colore dell’oro sotto il caldo riflesso del sole sulle acque del mare, i capelli scuri come l’erba delle foreste ad est; lo vedo crescere e rubare, sopravvivere per un pezzo di pane, e poi lo vedo farsi un nome tra l’acciaio e il sangue, lo vedo con donne più grandi. Ed ogni mattina, quando mi desto, sento la fiammella in me ardere sempre di più, la sento spingere ed urlare, destarsi con la forza di un drago, come quelli delle storie, ed ogni notte, ogni sera si fa più potente. Sento il fuoco, la rabbia che mi chiama a se, sento l’ira per la prima volta in vita mia, ed allora, solo allora, scopro che c’è vita in me più potente della voglia di sopravvivere, sento la voglia di vivere.
Ed io non sono mai stata più viva di così.
E’ l’alba quando scorgo le mura della città, mai ne avevo viste di così alte e così maestose, verso il cielo, quasi a voler nascondere il sole e le sue spire, come una mano che copre gli occhi quando la luce del cielo si fa troppo prepotente.
“Sono alte e splendenti Hariq Shagir” Accanto a me, sporto fuori dal carro, il moro si affianca e sorride “Ma non come quelle di Falcadia, oh se le vedessi, quanto sono alte.”
Io e il moro abbiamo parlato spesso durante questo viaggio, parlarci mi rilassa, mi attenua, mi fa sentire qualcosa di più di quello che realmente sono. Pone un’importanza a quello che dico, quello che gli racconto, come farebbe un parente, mi chiama Hariq Shagir, piccolo fuoco. Con me si confida, mi racconta dei suoi viaggi e delle città che ha visitato, di suo padre, di Khemed, dei suoi studi, ed io lo ascolto, pendendo dalle sue labbra come farebbe un bambino durante i racconti di un vecchio. E infine mi racconta della sua amata, con sguardo triste e lacrime in fondo alla gola, con parole che parlano di una nostalgia insanabile; Seppellita in mare, la giovane dai suoi capelli bianchi ed i suoi occhi plumbei, anche lei come me era una mezzosangue, mi dice, che di lei non ha niente, se non il ricordo. Ha amato tanto la sua bella e indomita navigatrice.
“Spero di non vederle mai Tarqua” Lo guardo e sorrido “Desidero invece, vedere le steppe a nord dei tuoi racconti, dove il sole splende mai incontrastato, se non dagli alberi.”
“Li vedrai mio Shagir, li vedrai” Ride a bocca aperta, maneggiando con le redini del suo stallone, Efik  “Per ora, goditi la vista della città.”
Minuti che sembrano ore, fermi davanti agli alti cancelli in ferro della città aspettiamo. Aperti solo per un quarto rispetto la loro altezza originale, attraverso i fori di cancelli posso scorciare un barlume della città in movimento: i suoi personaggi, i suoi mercanti, le sue bestie, non sono molto diverse da quelle delle altre città del deserto, ma sicuramente sono molte di più, i rumori sono più forti e vivi, come se fossero in attesa di una festa ed impegnati nei preparativi si muovessero in fretta, agitati.
Vedo il padrone scendere dal carro, mostrare delle carte e passare qualche moneta a mano bassa agli uomini di guardia, questi annuiscono. Sono quattro, sembrano di essere di razze diverse, ma con poca convinzione si dicono qualcosa e si spostano verso i carri, sotto lo sguardo di disappunto del padrone.
Passano prima il suo carro, discostano le tende, guardando all’interno, passano al successivo, quello con gli oggetti portati in regalo per il cugino del padrone, vedo uno di loro allungare la mano verso un luccichio dorato. Quando si dirigono verso di noi, mi infilo velocemente dietro le tende.
L’uomo che sposta la tenda è alto, la pelle scura e luminosa, i capelli ricci e scuri legati sulla nuca, gli occhi hanno una sottile linea sotto le palpebre e brillano di un azzurro vivo, ci guarda, mi guarda, poi con un accenno di approvazione accosta la tenda.
A distanza di pochi attimi, il carro inizia a muoversi.
Le due ragazze mi guardano e bisbigliano qualcosa, sussurrano a vocina stridula una leggerissima risata, ricambio gli sguardi, sollevo il mento.
“Cosa c’è di divertente?” Chiedo, sento lo sguardo di Kolah addosso, penetrarmi la testa come a volermi leggere il flusso dei pensieri.
“Jezebel” Dice Malcha, i suoi occhi scuri si socchiudono mentre trattiene la risata, l’altra la guarda, si sposta la treccia sulla spalla, e mi guarda con lo stesso gesto “E’ palese”
“Cosa?”
“Che sei una puttana” Kolah mi guarda dritto negli occhi, solo ora noto la screziatura azzurra nelle iridi marroni “Se il padrone vuole solo te, ci sarà un motivo, basta vedere come ti comporti con tutti gli uomini che incontri, come la Jezebel delle storie”
Ricordo quella storia, la donna lasciva, l’esempio da non imitare, che non si era fatta remore nel godersi la vita, in tutti i modi peggiori.
“Ti abbiamo visto con il Capitano” Intima Kolah, “E con il Moro, ti ha dato perfino un nome, chissà cosa gli hai fatto” Dice invece Malcha, “Non meriteresti nemmeno uno sguardo, figuriamoci un nome” “Dovresti ringraziarci che non lo abbiamo detto al padrone”
“Sai cosa si dice,” Dice la ragazza con la treccia, Bhersa “Basta guardarle i capelli e gli occhi, la pelle chiara, uguale a Jezebel, non poteva che essere come lei”
Abbasso lo sguardo, consapevole,  incontrando gli anelli delle dita dei miei piedi. Non voglio più parlare.
“Puttana mezzosangue”
Forse lo sono davvero.
“Jezebel.”

Pietra e Ferro. -Capitolo 12.-

Sacra Città di Iztara

“Guardale i capelli, sono più lunghi dei tuoi mantelli!” Il padrone tiene in mano la punta di una delle mie ciocche, ride, e la sua bocca puzza di liquore.
“Oh cugino mio, hai preso un vero splendore” L’ospite ride, batte le mani e si versa del vino in una coppa, ha l’odore forte della frutta marinata “Un colpo di  fortuna più che di abilità” La voce alta e squillante mi penetra le orecchie, riesco a malapena a vedere la faccia dell’uomo, illuminata solo dalle torce fiammeggianti, mentre schernisce il suo interlocutore.
La Signora, seduta accanto all'ospite, beve delicatamente da un bicchiere di vetro. Porta un leggero vestito azzurro, i capelli legati in una lunga treccia, e anche da distante, riesco a sentire l'odore forte del suo sapone.
Siamo nel cortile esterno alla casa, una casa grande dalle forme tondeggianti, grandi finestre e colori caldi, gli odori della città esterna sono forti, colpiscono come spine il mio naso, sudore, urina, spezie e cibi, hanno un accento diverso tra queste alte mura.
Al di là di queste mura che chiudono il giardino ve ne sono altre, lontano, fuori dalle case, uguali nella forma e nei colori, che con austera riservatezza segregano i ricchi in una gabbia di mattonelle azzurre e arancioni, lontano dagli altri e dalle loro case di argilla, se mi spingo abbastanza in la con lo sguardo riesco quasi a vederli quei rettangolari edifici e le loro finestre vuote.
Il tavolo di fronte a me è basso sormontato quasi all’inverosimile di frutta e verdura cotta, carne rossastra e pesci chiari, due bicchieri sono appoggiati agli estremi, uno accanto al padrone ed uno accanto all’ospite.
Ed io sono alzata, accanto al padrone, le dita dei miei piedi tra l’erba fresca, bagnata da poco da qualche servo, cerco di guardare un punto lontano e di non concentrarmi sull’uomo che ho di fronte, non voglio guardarlo.
“Fai una giravolta” Mi dice il padrone “Mostra al nostro ospite” Davanti al tavolo, giro su me stessa
“Ha un nome?” Chiede il cugino, bevendo dal suo calice che sembra formato da pezzi di vetro squadrati, blu e oro.
“Le altre ragazze la chiamano Jezebel” Dice il padrone "Ma la mia adorata Kamilah, le ha dato un nome adorabile: Shiloh" Sorridendo e compiacendosi guardando la Signora che accenna un sorriso.
Mi sento seriamente in imbarazzo, a sentire quel nome, di fronte alla Signora, che da quella notte, non mi ha più chiamato. Penso proprio a causa delle cose che vengono dette su di me.
“Come quella Jezebel?” Mi guarda, cerca di scrutarmi in viso, abbasso lo sguardo “La somiglianza è evidente” Dice, ed insieme ridono.
“E’ solamente una storiella per bambine, non curartici” Una guardia si gira verso il muro che circonda il giardino, respira verso l’alto con aria assente “La donna e i suoi cani, l’assassina, sono solo stupide storie inventate, non è da rifletterci su, caro cugino” Le lunghe dita ossute si stringono attorno al calice,  “Si vede che è docile come un gattino”
Non c’è il dolce vento del deserto a portare via le parole dei due uomini.
Ci sono solo gli odori della città.

Pietra e Ferro. -Capitolo 13.-

Sacra Città di Iztara

Ho fatto un sogno, questa notte, così reale da distinguersi chiaramente dai miraggi della mente.
Faceva freddo, nella terra del mio sogno, un freddo che non avevo mai sentito prima, e gelidi pezzi di ghiaccio cadevano dal cielo sospinti da un sospiro leggerissimo, dalle mie labbra si formavano nuvole di respiro, il cielo aveva il colore della nebbia e non vi passava la luce del sole, le vette delle montagne che circondavano la vallata erano bianche e brillanti. Vedevo giorni e notti susseguirsi in attimi velocissimi, il sole farsi chiaro, cadere e rialzarsi dalle montagne, le lune ascendere e morire infrangendosi nel ghiaccio, in un silenzio profondo come la notte.
E poi trasportata da una forza più grande, mi spostavo da quella calma valle in villaggi e città, ed il cielo continuava a cambiare.
Vidi danze e balli, sotto il cielo di ghiaccio, illuminati da fuochi di torce, muoversi per volere di una forza arcana come legati da fili, corpi infrangersi tra loro, nel plenilunio della carne, mescolarsi e distruggersi nel fuoco. L’acqua di un colore sconosciuto infrangersi contro alte e spoglie rocce con furia e rabbia, su un pezzo di terra grande come un pugno, due uomini, due bambini, con corone di sangue e ferro, in piedi davanti al cielo, come a sfidarlo, le mani dorate rivolte con disdegno verso l’alto.
Una voce cantava in una lingua sconosciuta, con voci maschili e femminili, sconosciuta ma così familiare, ne capivo le assonanze come se fossero scritte nel mio sangue, forte mi batteva nel petto, muovendolo con forza al ritmico movimento, costringendolo a piegarsi e contorcersi.
Uomini con teste di cervi e donne con il muso degli orsi, gambe di cavalli e corna di toro, si attorcigliavano, guardandomi con occhi vuoti e lattei. Ali di drago rosse come il pianto del sole morente, infrangevano il cielo e le nuvole.
Il freddo diventava tepore, infine il calore del deserto, e le bianche spume del mare, la felicità mi riempiva il viso, ed il corpo si muoveva di volontà propria, sollevata dal peso che mi opprimeva. Sentivo i piedi nudi sul legno e l’aria fresca.
La sequenza di visioni si ripeteva al contrario, fino al terminarsi con la mia mano stretta attorno all’elsa del pugnale del mio padrone, ed il suo metallo tinto di rosso.
Ed ora sono sveglia, lungo le strade di questa enorme città, due passi dietro al padrone, un passo da Dasha. Guardo il pugnale battere contro il fianco del padrone, e ora credo di sapere di che colore sia quel metallo.
Camminiamo in un silenzio che pare finto, nonostante tutto quello che ci circondi non sia affatto silenzioso, anzi il vociare, i rumori, sono talmente forti da far dimenticare che esista la quiete.
Le persone che urlano e vociano, con l’audacia delle galline che beccano l’arida sabbia in cerca di qualche granello di grano, sono le più disparate.
Alcune sono alte quasi come un cammello, altre basse e più piccole di un cane, grosse, strette, la pelle colore della sabbia o verde come l’acqua sporca. Ce ne sono alcune che hanno la mascella all’infuori, i denti lunghi e appuntiti, impigliati sul labbro superiore, gli occhi grandi come biglie, rotondi e dei colori più inverosimili, sono per lo più alti e verdognoli, con le braccia muscolose e colli simili a quelli dei tori, ma alcuni sono più piccoli e chiari, con tratti meno aggressivi, meno bestie e più uomini, hanno un odore forte che non ho mai sentito, come di erba. Sono dei mezzosangue come me.
La gente non li guarda con disgusto, anzi non li guarda affatto, non più di quanto guarderebbe le altre persone, quelle normali.  
La strada è più pulita di quello che potrebbe sembrare, le alte case con le pietre del colore del tramonto, i tavoli del mercato, le persone e le loro vesti, sembrano aver preso ispirazione dal cielo e dal deserto con i loro colori così simili a quelli, solo ogni tanto, qualche colore come il viola, oppure l’azzurro, risveglia gli occhi da quella perenne sonnolenza.
Passiamo davanti ad un ragazzo, vestito con abiti da viaggio, ha corti capelli riccioluti del colore della paglia, ed in mano uno strumento, in piedi su di un secchio rovesciato canta e suona ad occhi chiusi, in lingua comune, immerso. Attorno a lui qualche persona si ferma ad ascoltare, lanciando monete dorate nel cappello appoggiato alla base del secchio.
La scorta si sposta davanti a lui, facendosi strada nella piccola folla, senza degnare di uno sguardo il cappello semivuoto, o i vestiti visibilmente vecchi e scuciti del ragazzo. Avessi delle monete, gliele darei, ma non ne possiedo, così, per qualche secondo, i miei occhi si posano sul suo viso assorto, cercando di far tornare alla mente le voci di quella lingua che da anni non incontrava le mie orecchie, e mi fermo ad ascoltare come le sue dita incontrano le corde dello strumento, con la dolcezza di una carezza, ed il piede che batte silenzioso sul secchio. Come se raccontasse la storia direttamente a me, lo ascolto rapita, mentre si muove con maestria negli intrecci del suo racconto, del suo cavaliere e dei suoi mostri.
Sembra durare un attimo, e la sua storia finisce, allora lui sorride, fa un profondo inchino e ci guarda prima di raccogliere le monete ed il cappello, i suoi occhi sono dello stesso colore dei miei.
Velocemente ritorno alla realtà, ed attorno a me non ci sono più le facce familiari degli uomini del padrone, o quella di Dasha, solo persone sconosciute, uomini e donne disattenti, che continuano lungo la loro strada.
Mi giro e mi rigiro più volte, alla ricerca del cappello appunta del padrone, ma non c'è modo di trovare l’ombra colorata di giallo e viola.  
Sento l’aria entrare ed uscire dai polmoni velocemente, mentre sposto lo sguardo avanti ed indietro.
Arranco, cercando di avvicinarmi ad una parete, rintanarmi via da questa bolgia che sembra essere sempre più numerosa, sempre più alta.
L'aria che prima entrava nei miei polmoni troppo velocemente, ora non riesce a passare in questa gola chiusa, e mentre vedo il terreno farsi sempre più vicino sento il muro intonacato sotto i polpastrelli. Scivolo lungo la parete, e ricomincio a respirare, a guardare la gente la testa comincia a farsi leggera.
Non sono mai stata da sola prima.
Mi sono persa.
Come torno a casa?
Penseranno sia scappata, mi frusteranno.
Piego la testa di lato e vomito.
Resto seduta ancora qualche attimo in seguito, mentre la mia testa inizia a vorticare sempre più velocemente.
Non posso restare quì.
Mi alzo e percorrendo il muro con le dita, riesco a trovare un anfratto, che si allunga in un vicolo. Nel disperato tentativo di sfuggire alla matassa di gente imbrogliata lungo la sabbia, decido di percorrerlo.
Il vicolo è vuoto, nessuno interrompe il mio camminare, piegata quasi a terra, la testa ancora leggera.
Cammino per quella che sembra un eternità ed i miei pensieri si fanno sempre più spaventati, ripetendo all'infinito la punizione che verrà.
Di colpo il sole reincontra i miei occhi, quasi ad accecarmi, e scalda la mia pelle come un pugno. Confusa alzo lo sguardo e una piazza mi si para davanti, vuota.
Con ripresa lucidità mi rendo conto che è circolare. Al centro c'è un pozzo rialzato, con un secchio appoggiato al fianco e legato ad una corda che pende dal ramo di un grande albero, cresciuto accanto al pozzo.
Che albero meraivlgioso, le fronde ampie e coperte quel poco che basta per creare un’ombra leggera con le sue foglie di un rosso ombroso, come quello del tramonto, che placide galleggiano in una leggera brezza fresca.
Questa vista distrae la mia mente e cammino verso l’albero, ed una volta vicino mi appoggio al tronco ruvido. Ora, respirare è più semplice.
Guardo attorno questa piazzetta solitaria, e noto che c’è una sola insegna appesa sopra ad una delle porte, che lentamente si muove. L'aria è fresca, e per un momento chiudo gli occhi.
Che pace, che calma.
Sto meglio.
Sento sbattere una finestra, qualche casa più in là, e noto che anche in quest’area che sembrava deserta e silenziosa, in realtà c’è vita e movimento, nei rumori di qualcuno che stende i panni, e di una madre che rimprovera il figlio dietro ad una porta chiusa, perfino nello strusciare dell’acqua contro le pareti di pietra.
Mi trovo circondata dalla vera grande città, silenziosa come le formiche che mi passano sopra la mano, lungo il tronco dell’albero.
E per una volta, per un momento, mi domando come possa essere vivere con la libertà di spostarsi, o di stendere i panni, o di redarguire il figlio per qualche marachella. Come possa essere decidere per se stessi così facile.
Siedo e respiro, ed il panico provato, ora si trasforma in sollievo.
Non è la prima volta che un pensiero simile viaggia nella mia testa, ma è siuramente la prima volta in cui questa sensazione non è finzione, è vera.
Ma cosa se fossi fatta della stessa materia della  pietra in realtà, e sentire e provare questo sollievo non fosse un dono concessomi?
Forse questa è l’unica occasione che avrò mai per guardarmi attorno con la libertà di poterlo fare.
E quindi guardo.
Guardo attentamente, ad imprimermi questa immagine nella testa, l’immagine di un’oasi calma e silenziosa, da un mare di suoni troppo forti. Le porte in legno delle case, ed il muro chiaro del pozzo, la sabbia che lascia spazio a poca erba rada, l’insegna che si muove rigida, le finestre aperte, e l’albero rosso.
Mi alzo e stacco una foglia dal ramo, questo sarà il mio ricordo.
Poi d’un tratto, la porta sotto l’insegna si apre.
Un piccolo omino gobbo, con gli occhi troppo grandi e acquosi, le mani dalle dita troppo lunghe, la pelle troppo tendente al blu, si muove rimbalzando sulla gamba più lunga, la testa infossata nelle spalle gobbe. E' vestito da una corta tunica tagliata alla bene e meglio e strappata in più punti. Così come la sua pelle, anche i suoi occhi hanno un riflesso azzurrognolo, un colore che risulta in tutto e per tutto viziato.
In tono supplicante e sottomesso ma al contempo malizioso, parla con l’uomo girato di profilo che tiene la porta aperta.
I capelli appoggiati su di una spalla, un ghigno divertito sulle labbra, alza le mani in segno di resa, con l’aria di un bambino appena sorpreso dai genitori a fare qualcosa che non doveva, si rivolge verso l’interno “Tarqua, spiega tu al tuo amico che un unguento miracoloso per la pelle non fa per me” dice, visibilmente alla ricerca di sostegno
Vedo quindi il moro uscire dall’oscurità del negozio, sorridere ed appoggiare una mano sulla gobba dell’omino, abbassandosi “Grazie Tegi, ma il mio amico preferisce tenersi le sue cicatrici” Ridacchia ed ammicca “Crede gli portino fortuna con le ragazze”
 “Infatti è così” La voce del capitano è divertita “Hai trovato tutto quello che cercavi?” Chiede al moro
“Si, possiamo andare” Si solleva e si rivolge al gobbo “Grazie ancora amico mio”
“Ma siete sicuro signore? posso darvi più di una cura, posso darvi un miracolo!” Dice Tegi
“Davvero Tegi, grazie, ma non mi serve” Ridacchia, mentre l’omino indispettito, mima un gesto di saluto e torna all’interno del negozio, la porta si chiude alle sue spalle.
“Quindi dove dobbiamo andare ora?” Chiede il moro “I ragazzi ci aspettano alla locanda quando cala il sole”
“Mi servirebbe una cosa per le spade” Il capitano si guarda attorno
Ormai alzata, appoggiata al pozzo, rimango in attesta, ed i suoi occhi illuminati dalla luce incontrano presto i miei. Stringo forte nella mano, la foglia rubata.
A quel punto si gira verso il moro confuso, che a sua volta mi vede.
Si avvicinano velocemente, guardandosi attorno con circospezione.
Mi chiedono cosa ci faccio qui, che non dovrei allontanarmi da Baskhra, gli dico che mi sono persa quando abbiamo incontrato un cantastorie. Dicono che mi accompagneranno a casa, perché la città è grande e pericolosa, se non si conoscono i luoghi giusti.
Allora camminiamo, ed io non riesco a guardare la punta dei miei piedi, penso invece alla città, ad i suoi vicoli, ad il sole cocente al di sopra dei tendoni colorati dei mercanti, e mi riempio di meraviglia.
Dovrei sentirmi in colpa, dispiaciuta, ma non ci riesco, non voglio farlo, voglio guardare ed osservare con gli occhi da bambino, quegli occhi che ho sognato, quel sole che ho vissuto.
Non ho paura, che mi puniscano, che facciano quello che vogliono.
Sono qui, sono viva.
Non ci mettiamo molto ad arrivare.
Entriamo nel cortile, sento la mano del moro sulla mia spalla,  non capisco se si tratta di un gesto di conforto, oppure di un gesto che mostra che non ho intenzione di scappare.
Passiamo il primo corridoio e raggiungiamo il cortile esterno, dove le ragazze, in piedi a testa china, subiscono né l’ultima, né la prima, di una dura redarguizione.
In piedi appoggiato ad una colonna del cortile ricoperta di foglie, sta uno degli uomini del padrone, in mano tiene una frusta, lunga, a nove sbocchi. L’ho già vista quella frusta, più volte, ma ancora non l’ho assaggiata sulla pelle, non ancora.
Lo fanno per molto meno.
Farà male, lo so, ma non sento la bile risalirmi alla bocca, sento solo la saliva, e la mano forte di Tarqua che mi stringe la spalla, e gli uccelli che cantano dalla cima degli alberi.
Il glabro si gira, vedendomi entrare, dice qualcosa, mi indica, ma non lo ascolto.
Gli sorrido.
L’uomo del padrone si avvicina e mi intima di inginocchiarmi, di scoprire la schiena. Lo faccio, mi tolgo la parte superiore del vestito, tengo una mano sulle ginocchia, l'altra stringe forte la foglia, e appunto il mio sguardo verso l’alto, verso un balcone sontuoso, dove siede il padrone e suo cugino, la Signora non c'è.
Menomale.
Arriva il primo colpo, si scaglia sulla pelle con un suono sordo, sento ancora cantare gli uccelli, le ragazze si stringono nelle spalle, Tarqua guarda l’uomo con la frusta, il suo sguardo impassibile, Khemed invece ha gli occhi puntati verso l’alto, verso il balcone.
Il secondo colpo come ghiaccio e sale sulla ferita aperta, guardo verso la sabbia con gli occhi spalancati, non voglio dargli la soddisfazione di sentirmi urlare, così mi mordo il labbro, forte, cercando di tenere il più possibile la voce dentro la gola. Lo sento spezzarsi e cedere ai denti.
Al terzo colpo però, il dolore si fa meno forte, e sento il sangue scivolarmi lungo la schiena. Con il quarto colpo, la frusta sulla carne aperta non la sento più, nemmeno il sangue, allora allento la mascella, assaggio quel sangue che mi ritrovo sulle labbra.
Sollevo di nuovo lo sguardo sul padrone, consapevole della mia bocca insanguinata, raggiungo i suoi occhi, gonfi e lagunosi, nascosti dall’ombra del porticato, e allora, forse per la prima volta lo guardo dritto negli occhi. I suoi occhi scuri, non riescono a mantenere il contatto fisso con i miei.
Piego la testa in avanti e rido.
Rido così forte che non si sente più il rumore della frusta infrangersi contro la mia pelle.
Eppure si riesce chiaramente a sentire gli uccelli volare via dai loro rami.


Pietra e Ferro. -Capitolo 14.-

Sacra Città di Iztara

Penso siano passati quattro giorni, la schiena ha iniziato ad infettarsi, nonostante le creme. Il dolore è insostenibile, la pelle è talmente gonfia che muovo le spalle a paura.
Sta iniziando a salirmi la febbre e con la pelle calda a stare sotto il sole mi gira la testa, quindi sotto consiglio del maggiordomo, mi hanno lasciato a casa a riposare.
Ci sono dei momenti, in cui attraverso la confusione, vedo e sento entrare la Signora, sono sempre troppo stanca per muovermi, o dire qualcosa, quindi solo la guardo, mentre le sue mani profumate passano sulla mia pelle, provocandomi dolore e piacere; Mi cambia le bende, mi dà da bere, mi sfiora, e mi sussura parole.
Mi scioglierei sotto le sue dita, se non fossi troppo stanca per far altro che sospirare.
Mi piacerebbe riuscire a lavarmi e mangiare qualcosa, questo richiederebbe il spostarsi, ma solamente all’idea la pelle mi pulsa con forza.
Sembra fare sempre più caldo, dormire è solamente fastidioso, quindi passo tutto il giorno a pensare e fantasticare, tra una fitta di dolore e l’altra.
E passa così un altro giorno.

Pietra e Ferro. -Capitolo 15.-

Sacra Città di Iztara

Passano svariati giorni.
Poi arriva di buon mattino quello che sembra essere un guaritore, accompagnato dal padrone, dal maggiordomo, dalla domestica, dall’ospite e dalla Signora.
Si scambiano giusto qualche occhiata, mentre la domestica mi toglie lentamente le bende, ed ad ogni pezzo di stoffa che si solleva sento la pelle ormai appiccicata tirarsi via con un doloroso strappo, per finire poi con l’aria calda sulle ferite aperte, che brucia soltanto.
Il guaritore si avvicina, che sento premere con le mani, sulle parti in cui la pelle non è tagliata. Pulisce poi quel poco che resta del sangue e probabilmente del pus, che sento dolorosamente uscire ogni qual volta preme, anche solo leggermente. Ogni sensazione risulta offuscata, probabilmente dalla febbre.
“Si è infettata per bene.” Dice, la sua voce è bassa, sospettosa “Ripetetemi come se l’è procurata.”
Contro ogni aspettativa, non è il padrone a parlare, ma suo cugino “Eh, nostra nipote è parecchio distratta, stava passeggiando quando è finita dritta contro un pover’uomo che stava punendo giustamente il suo asino-" Ridacchia, ma il guaritore non risponde, allora continua "-E lei poveretta, si è presa la punizione al posto dell’animale,” Vedo la domestica abbassare la testa, tenendo fisso lo sguardo sul pavimento.
Il guaritore mugugna e non risponde, si limita a toccare la pelle sana e quella meno. Fin quando non lo sento dire qualche parola in una lingua che non riconosco; Non si tratta del comune e nemmeno della lingua che si parla qui. Sento una sensazione di freschezza che contrasta il calore estremo della febbre, e la schiena sembra fare di colpo meno male. Sento poi l’umidità di quella che sembra essere una crema, dapprima fredda e poco dopo sempre più calda, passa sotto i lebbi di pelle, da un taglio all’altro.
“Avrà bisogno di ancora qualche giorno di riposo” Vedo la sua mano passare al padrone una boccetta contente un liquido molto denso e lattiginoso, questo la passa velocemente al maggiordomo “Assolutamente niente sforzi” Lo vedo sciacquarsi le mani in una bacinella vicino al letto “Se avete intenzione di partire l’indomani, vi consiglio caldamente di posticipare, di almeno tre giorni.” Si asciuga le mani sulla lunga veste dorata e poi mi accarezza dolcemente la testa che tengo piegata, la sua mano ingioiellata sa di erbe e ha quel classico odore smorzato delle mani degli incantatori “Uno sforzo simile, uno stress simile potrebbe portare a complicazioni quantomeno gravi, o peggio.”
Vedo il padrone accigliarsi, i suoi occhi scuri ripiegati sulle guance paffute.
“Ora ricordatevi di applicare la crema due volte al giorno, la mattina e la sera, e di darle queste erbe per la febbre” Passa quindi nuovamente un fascio d’erba secca al padrone “Magari con dell’acqua calda”
“Certo si” Dice l’ospite, “Ora venite prego, parliamo della mia cospicua offerta al tempio” Il guaritore si lascia accompagnare fuori, e scompaiono quindi dietro alla porta chiusa.
Il padrone mi guarda per un attimo, si sofferma sulla mia schiena, sul collo e infine sul viso, ma mai negli occhi, come se guardarli fosse proibito. Infine passa seccato il fascio d’erba al maggiordomo che lo accetta a testa bassa, si rivolge dunque alla domestica “Fasciala, e poi prepara le sue cose.”
Il maggiordomo lo guarda per un attimo, come confuso, oppure allibito, fin quando non si rivolge a lui, ed allora abbassa la testa “Tu fai si che le altre si preparino, domani all’alba le voglio sul carro.”
“Ma padrone, non sarebbe meglio aspettare un altro giorno almeno?” Chiede, permettendosi di alzare un poco lo sguardo e appoggiarlo su di me “Viste le sue condizioni”
“Non permetterti di mettere in discussioni le mie parole!” Urla “Non guardarla neppure; oppure insieme alla lingua ti farò cavare gli occhi!” Il maggiordomo abbassa di colpo la testa e flette le ginocchia, come a volersi abbassare sotto la statura del padrone “Ora va e fa quello che ti ho detto! E che il tuo Dio ti salvi se la notte di domani non la troverò nel mio letto!”
Il maggiordomo resta chino e senza dargli la schiena esce dalla porta annuendo più volte.
Il padrone sospira, si passa una mano sulla testa quasi del tutto calva, ed esce poco dopo.
La Signora, resta per un attimo, e la vedo guardarmi. Poi senza dire niente, se ne va, lasciando solo l'odore del suo sapone dietro di lei.
La domestica mormora qualcosa, qualcosa che suona tanto come un mi dispiace, mentre delicatamente mi fascia la schiena, poi prende qualcosa da terra e se ne va anche lei.
Non sono stupida, ho capito che se le mie condizioni peggiorano, quasi certamente potrei morire per via dell’infezione. Sinceramente non so cosa pensare, se potessi avere una scelta non saprei cosa scegliere.
Ma ora sono stanca e la testa mi pesa, così come le palpebre. Se fortuna vuole sarò morta prima dell’alba, in caso contrario, non rivedrò mai la città dove mi hanno venduta. Non che mi sarebbe mancata.
Comunque vada, ora chiudo gli occhi.

Title
Volpe di Falcadia, Cavaliere delle Farfalle, Guerriera Felagi, Thane della Contea di Vinegia, Vigendur, Comandante del Dominio, Principessa di Verdemuro

Type
Personaggio Giocante

Races
Ash'Tal (Mezzelfi)

Age
24

Gender
Femmina

Pronouns
Lei

Appearance

Capelli:
Rossi, Ricci.

Occhi:
Verdi.

Pelle:
Chiara ma solitamente abbronzata.

Cicatrici (Significativi):
Orizzontale sul naso, diagonale da mento (dx) a fronte (sx), labbro rotto (dx), occhio pupilla rotta (dx), braccio sinistro assente (poco sotto la spalla).

Tatuaggi (Significativi):
Tatuaggio da schiava viso e schiena, volpe e falco costato (dx), araldica mercenari costato (sx), simbolo Belsaporro coscia (sx), simbolo Ierofante nuca.

Altezza:
162 cm

Peso:
75 kg.

Personality

Obbiettivi:
Prossimi: Ora che ho recuperato l'effige, deve trovare e parlare con Yegon, il drago Opliato.
Ultimi: Ritrovare Khemed e vivere in pace, e in libertà.

Motivazioni:
La fine è sempre più vicina, non è il momento di mollare, ma è il tempo di stringere i denti e proseguire.
Anche se mi sento persa.

Conflitto:
Dopo aver perso il braccio mi sento a metà, inutile, anche imbracciare la spada è difficile. Se non posso usare il mio corpo, allora a cosa servo?

Carattere:
Sociale e solare, dura e dedita.
Le piace avere il controllo delle situazioni. Ultimamente si arrabbia più facilmente, ed ha picchi di tristezza molto forti.

Ideale:
Forza e fedeltà, se perdo la ragione, la speranza, è tutto finito. Non posso, non devo.

Credenze (Religione):
Gli Dei ci sono, esistono, ma i fatti li facciamo noi, e solo noi possiamo cambiare le cose.

Difetti:
Spesso è una testa calda. Ha un ego grande e non ama essere messa in discussione. Menzionare le sue differenze o le sue possibilità, non è una buona idea.

Simpatie:
Solitamente le piacciono tutte le persone a primo impatto.

Antipatie:
Poi però dipende da quanto sono fastidiose. Date le nuove scoperte su suo padre, inizia a non fidarsi degli Elfi. Ed ha imparato da tempo a tenere le distanze dagli uomini che hanno superato una certa età.

Famiglia:
Ora che ha conosciuto il padre, continua a provare questo senso di rifiuto, ciò nonostante si sente in dovere di aiutarlo nella sua causa. Ha scoperto di avere dei fratelli, ed una nuova sensazione di affetto e di protezione si è fatta strada in lei.

Amicizia:
I suoi amici più cari sono i suoi compagni, passati e non. Ma il suo amico e confidente più caro è Tarqua, avvicinato solo da Celric e da Klaus.

Amore:
Ha paura di chiamare amore quello che prova per Edulf, anche se ormai le è chiaro. Però questo non cambia quello che prova e provava per Khemed.

Alleati:
Le volpi, Falcadia e gli alleati di questa.

Nemici:
Zodh in piccola parte, i Principi per lo più, ha giurato di distruggere tutti gli schiavisti sul suo cammino.