Ho fatto un sogno, questa notte, così reale da distinguersi chiaramente dai miraggi della mente.
Faceva freddo, nella terra del mio sogno, un freddo che non avevo mai sentito prima, e gelidi pezzi di ghiaccio cadevano dal cielo sospinti da un sospiro leggerissimo, dalle mie labbra si formavano nuvole di respiro, il cielo aveva il colore della nebbia e non vi passava la luce del sole, le vette delle montagne che circondavano la vallata erano bianche e brillanti. Vedevo giorni e notti susseguirsi in attimi velocissimi, il sole farsi chiaro, cadere e rialzarsi dalle montagne, le lune ascendere e morire infrangendosi nel ghiaccio, in un silenzio profondo come la notte.
E poi trasportata da una forza più grande, mi spostavo da quella calma valle in villaggi e città, ed il cielo continuava a cambiare.
Vidi danze e balli, sotto il cielo di ghiaccio, illuminati da fuochi di torce, muoversi per volere di una forza arcana come legati da fili, corpi infrangersi tra loro, nel plenilunio della carne, mescolarsi e distruggersi nel fuoco. L’acqua di un colore sconosciuto infrangersi contro alte e spoglie rocce con furia e rabbia, su un pezzo di terra grande come un pugno, due uomini, due bambini, con corone di sangue e ferro, in piedi davanti al cielo, come a sfidarlo, le mani dorate rivolte con disdegno verso l’alto.
Una voce cantava in una lingua sconosciuta, con voci maschili e femminili, sconosciuta ma così familiare, ne capivo le assonanze come se fossero scritte nel mio sangue, forte mi batteva nel petto, muovendolo con forza al ritmico movimento, costringendolo a piegarsi e contorcersi.
Uomini con teste di cervi e donne con il muso degli orsi, gambe di cavalli e corna di toro, si attorcigliavano, guardandomi con occhi vuoti e lattei. Ali di drago rosse come il pianto del sole morente, infrangevano il cielo e le nuvole.
Il freddo diventava tepore, infine il calore del deserto, e le bianche spume del mare, la felicità mi riempiva il viso, ed il corpo si muoveva di volontà propria, sollevata dal peso che mi opprimeva. Sentivo i piedi nudi sul legno e l’aria fresca.
La sequenza di visioni si ripeteva al contrario, fino al terminarsi con la mia mano stretta attorno all’elsa del pugnale del mio padrone, ed il suo metallo tinto di rosso.
Ed ora sono sveglia, lungo le strade di questa enorme città, due passi dietro al padrone, un passo da Dasha. Guardo il pugnale battere contro il fianco del padrone, e ora credo di sapere di che colore sia quel metallo.
Camminiamo in un silenzio che pare finto, nonostante tutto quello che ci circondi non sia affatto silenzioso, anzi il vociare, i rumori, sono talmente forti da far dimenticare che esista la quiete.
Le persone che urlano e vociano, con l’audacia delle galline che beccano l’arida sabbia in cerca di qualche granello di grano, sono le più disparate.
Alcune sono alte quasi come un cammello, altre basse e più piccole di un cane, grosse, strette, la pelle colore della sabbia o verde come l’acqua sporca. Ce ne sono alcune che hanno la mascella all’infuori, i denti lunghi e appuntiti, impigliati sul labbro superiore, gli occhi grandi come biglie, rotondi e dei colori più inverosimili, sono per lo più alti e verdognoli, con le braccia muscolose e colli simili a quelli dei tori, ma alcuni sono più piccoli e chiari, con tratti meno aggressivi, meno bestie e più uomini, hanno un odore forte che non ho mai sentito, come di erba. Sono dei mezzosangue come me.
La gente non li guarda con disgusto, anzi non li guarda affatto, non più di quanto guarderebbe le altre persone, quelle normali.
La strada è più pulita di quello che potrebbe sembrare, le alte case con le pietre del colore del tramonto, i tavoli del mercato, le persone e le loro vesti, sembrano aver preso ispirazione dal cielo e dal deserto con i loro colori così simili a quelli, solo ogni tanto, qualche colore come il viola, oppure l’azzurro, risveglia gli occhi da quella perenne sonnolenza.
Passiamo davanti ad un ragazzo, vestito con abiti da viaggio, ha corti capelli riccioluti del colore della paglia, ed in mano uno strumento, in piedi su di un secchio rovesciato canta e suona ad occhi chiusi, in lingua comune, immerso. Attorno a lui qualche persona si ferma ad ascoltare, lanciando monete dorate nel cappello appoggiato alla base del secchio.
La scorta si sposta davanti a lui, facendosi strada nella piccola folla, senza degnare di uno sguardo il cappello semivuoto, o i vestiti visibilmente vecchi e scuciti del ragazzo. Avessi delle monete, gliele darei, ma non ne possiedo, così, per qualche secondo, i miei occhi si posano sul suo viso assorto, cercando di far tornare alla mente le voci di quella lingua che da anni non incontrava le mie orecchie, e mi fermo ad ascoltare come le sue dita incontrano le corde dello strumento, con la dolcezza di una carezza, ed il piede che batte silenzioso sul secchio. Come se raccontasse la storia direttamente a me, lo ascolto rapita, mentre si muove con maestria negli intrecci del suo racconto, del suo cavaliere e dei suoi mostri.
Sembra durare un attimo, e la sua storia finisce, allora lui sorride, fa un profondo inchino e ci guarda prima di raccogliere le monete ed il cappello, i suoi occhi sono dello stesso colore dei miei.
Velocemente ritorno alla realtà, ed attorno a me non ci sono più le facce familiari degli uomini del padrone, o quella di Dasha, solo persone sconosciute, uomini e donne disattenti, che continuano lungo la loro strada.
Mi giro e mi rigiro più volte, alla ricerca del cappello appunta del padrone, ma non c'è modo di trovare l’ombra colorata di giallo e viola.
Sento l’aria entrare ed uscire dai polmoni velocemente, mentre sposto lo sguardo avanti ed indietro.
Arranco, cercando di avvicinarmi ad una parete, rintanarmi via da questa bolgia che sembra essere sempre più numerosa, sempre più alta.
L'aria che prima entrava nei miei polmoni troppo velocemente, ora non riesce a passare in questa gola chiusa, e mentre vedo il terreno farsi sempre più vicino sento il muro intonacato sotto i polpastrelli. Scivolo lungo la parete, e ricomincio a respirare, a guardare la gente la testa comincia a farsi leggera.
Non sono mai stata da sola prima.
Mi sono persa.
Come torno a casa?
Penseranno sia scappata, mi frusteranno.
Piego la testa di lato e vomito.
Resto seduta ancora qualche attimo in seguito, mentre la mia testa inizia a vorticare sempre più velocemente.
Non posso restare quì.
Mi alzo e percorrendo il muro con le dita, riesco a trovare un anfratto, che si allunga in un vicolo. Nel disperato tentativo di sfuggire alla matassa di gente imbrogliata lungo la sabbia, decido di percorrerlo.
Il vicolo è vuoto, nessuno interrompe il mio camminare, piegata quasi a terra, la testa ancora leggera.
Cammino per quella che sembra un eternità ed i miei pensieri si fanno sempre più spaventati, ripetendo all'infinito la punizione che verrà.
Di colpo il sole reincontra i miei occhi, quasi ad accecarmi, e scalda la mia pelle come un pugno. Confusa alzo lo sguardo e una piazza mi si para davanti, vuota.
Con ripresa lucidità mi rendo conto che è circolare. Al centro c'è un pozzo rialzato, con un secchio appoggiato al fianco e legato ad una corda che pende dal ramo di un grande albero, cresciuto accanto al pozzo.
Che albero meraivlgioso, le fronde ampie e coperte quel poco che basta per creare un’ombra leggera con le sue foglie di un rosso ombroso, come quello del tramonto, che placide galleggiano in una leggera brezza fresca.
Questa vista distrae la mia mente e cammino verso l’albero, ed una volta vicino mi appoggio al tronco ruvido. Ora, respirare è più semplice.
Guardo attorno questa piazzetta solitaria, e noto che c’è una sola insegna appesa sopra ad una delle porte, che lentamente si muove. L'aria è fresca, e per un momento chiudo gli occhi.
Che pace, che calma.
Sto meglio.
Sento sbattere una finestra, qualche casa più in là, e noto che anche in quest’area che sembrava deserta e silenziosa, in realtà c’è vita e movimento, nei rumori di qualcuno che stende i panni, e di una madre che rimprovera il figlio dietro ad una porta chiusa, perfino nello strusciare dell’acqua contro le pareti di pietra.
Mi trovo circondata dalla vera grande città, silenziosa come le formiche che mi passano sopra la mano, lungo il tronco dell’albero.
E per una volta, per un momento, mi domando come possa essere vivere con la libertà di spostarsi, o di stendere i panni, o di redarguire il figlio per qualche marachella. Come possa essere decidere per se stessi così facile.
Siedo e respiro, ed il panico provato, ora si trasforma in sollievo.
Non è la prima volta che un pensiero simile viaggia nella mia testa, ma è siuramente la prima volta in cui questa sensazione non è finzione, è vera.
Ma cosa se fossi fatta della stessa materia della pietra in realtà, e sentire e provare questo sollievo non fosse un dono concessomi?
Forse questa è l’unica occasione che avrò mai per guardarmi attorno con la libertà di poterlo fare.
E quindi guardo.
Guardo attentamente, ad imprimermi questa immagine nella testa, l’immagine di un’oasi calma e silenziosa, da un mare di suoni troppo forti. Le porte in legno delle case, ed il muro chiaro del pozzo, la sabbia che lascia spazio a poca erba rada, l’insegna che si muove rigida, le finestre aperte, e l’albero rosso.
Mi alzo e stacco una foglia dal ramo, questo sarà il mio ricordo.
Poi d’un tratto, la porta sotto l’insegna si apre.
Un piccolo omino gobbo, con gli occhi troppo grandi e acquosi, le mani dalle dita troppo lunghe, la pelle troppo tendente al blu, si muove rimbalzando sulla gamba più lunga, la testa infossata nelle spalle gobbe. E' vestito da una corta tunica tagliata alla bene e meglio e strappata in più punti. Così come la sua pelle, anche i suoi occhi hanno un riflesso azzurrognolo, un colore che risulta in tutto e per tutto viziato.
In tono supplicante e sottomesso ma al contempo malizioso, parla con l’uomo girato di profilo che tiene la porta aperta.
I capelli appoggiati su di una spalla, un ghigno divertito sulle labbra, alza le mani in segno di resa, con l’aria di un bambino appena sorpreso dai genitori a fare qualcosa che non doveva, si rivolge verso l’interno “Tarqua, spiega tu al tuo amico che un unguento miracoloso per la pelle non fa per me” dice, visibilmente alla ricerca di sostegno
Vedo quindi il moro uscire dall’oscurità del negozio, sorridere ed appoggiare una mano sulla gobba dell’omino, abbassandosi “Grazie Tegi, ma il mio amico preferisce tenersi le sue cicatrici” Ridacchia ed ammicca “Crede gli portino fortuna con le ragazze”
“Infatti è così” La voce del capitano è divertita “Hai trovato tutto quello che cercavi?” Chiede al moro
“Si, possiamo andare” Si solleva e si rivolge al gobbo “Grazie ancora amico mio”
“Ma siete sicuro signore? posso darvi più di una cura, posso darvi un miracolo!” Dice Tegi
“Davvero Tegi, grazie, ma non mi serve” Ridacchia, mentre l’omino indispettito, mima un gesto di saluto e torna all’interno del negozio, la porta si chiude alle sue spalle.
“Quindi dove dobbiamo andare ora?” Chiede il moro “I ragazzi ci aspettano alla locanda quando cala il sole”
“Mi servirebbe una cosa per le spade” Il capitano si guarda attorno
Ormai alzata, appoggiata al pozzo, rimango in attesta, ed i suoi occhi illuminati dalla luce incontrano presto i miei. Stringo forte nella mano, la foglia rubata.
A quel punto si gira verso il moro confuso, che a sua volta mi vede.
Si avvicinano velocemente, guardandosi attorno con circospezione.
Mi chiedono cosa ci faccio qui, che non dovrei allontanarmi da Baskhra, gli dico che mi sono persa quando abbiamo incontrato un cantastorie. Dicono che mi accompagneranno a casa, perché la città è grande e pericolosa, se non si conoscono i luoghi giusti.
Allora camminiamo, ed io non riesco a guardare la punta dei miei piedi, penso invece alla città, ad i suoi vicoli, ad il sole cocente al di sopra dei tendoni colorati dei mercanti, e mi riempio di meraviglia.
Dovrei sentirmi in colpa, dispiaciuta, ma non ci riesco, non voglio farlo, voglio guardare ed osservare con gli occhi da bambino, quegli occhi che ho sognato, quel sole che ho vissuto.
Non ho paura, che mi puniscano, che facciano quello che vogliono.
Sono qui, sono viva.
Non ci mettiamo molto ad arrivare.
Entriamo nel cortile, sento la mano del moro sulla mia spalla, non capisco se si tratta di un gesto di conforto, oppure di un gesto che mostra che non ho intenzione di scappare.
Passiamo il primo corridoio e raggiungiamo il cortile esterno, dove le ragazze, in piedi a testa china, subiscono né l’ultima, né la prima, di una dura redarguizione.
In piedi appoggiato ad una colonna del cortile ricoperta di foglie, sta uno degli uomini del padrone, in mano tiene una frusta, lunga, a nove sbocchi. L’ho già vista quella frusta, più volte, ma ancora non l’ho assaggiata sulla pelle, non ancora.
Lo fanno per molto meno.
Farà male, lo so, ma non sento la bile risalirmi alla bocca, sento solo la saliva, e la mano forte di Tarqua che mi stringe la spalla, e gli uccelli che cantano dalla cima degli alberi.
Il glabro si gira, vedendomi entrare, dice qualcosa, mi indica, ma non lo ascolto.
Gli sorrido.
L’uomo del padrone si avvicina e mi intima di inginocchiarmi, di scoprire la schiena. Lo faccio, mi tolgo la parte superiore del vestito, tengo una mano sulle ginocchia, l'altra stringe forte la foglia, e appunto il mio sguardo verso l’alto, verso un balcone sontuoso, dove siede il padrone e suo cugino, la Signora non c'è.
Menomale.
Arriva il primo colpo, si scaglia sulla pelle con un suono sordo, sento ancora cantare gli uccelli, le ragazze si stringono nelle spalle, Tarqua guarda l’uomo con la frusta, il suo sguardo impassibile, Khemed invece ha gli occhi puntati verso l’alto, verso il balcone.
Il secondo colpo come ghiaccio e sale sulla ferita aperta, guardo verso la sabbia con gli occhi spalancati, non voglio dargli la soddisfazione di sentirmi urlare, così mi mordo il labbro, forte, cercando di tenere il più possibile la voce dentro la gola. Lo sento spezzarsi e cedere ai denti.
Al terzo colpo però, il dolore si fa meno forte, e sento il sangue scivolarmi lungo la schiena. Con il quarto colpo, la frusta sulla carne aperta non la sento più, nemmeno il sangue, allora allento la mascella, assaggio quel sangue che mi ritrovo sulle labbra.
Sollevo di nuovo lo sguardo sul padrone, consapevole della mia bocca insanguinata, raggiungo i suoi occhi, gonfi e lagunosi, nascosti dall’ombra del porticato, e allora, forse per la prima volta lo guardo dritto negli occhi. I suoi occhi scuri, non riescono a mantenere il contatto fisso con i miei.
Piego la testa in avanti e rido.
Rido così forte che non si sente più il rumore della frusta infrangersi contro la mia pelle.
Eppure si riesce chiaramente a sentire gli uccelli volare via dai loro rami.